29 Ott Violenza Privata
Tagliare il pallone ai bambini che disturbano giocando in cortile è violenza privata?
Nell’escludere la sussistenza del reato di violenza privata nella condotta dell’imputato che aveva reiteratamente ripreso alcuni minorenni che facevano rumori nel cortile condominiale giocando con un pallone, intimando loro di non arrecare disturbo ed altresì tagliando i palloni con i quali i bambini giocavano, la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui la violenza o la minaccia, per assumere penale rilevanza, devono determinare una perdita o riduzione sensibile, da parte del soggetto passivo, della capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà.
Il caso
Con sentenza del 10-5-2012 il Tribunale di Salerno condannava M.P. alla pena di mesi quattro di reclusione per il delitto di cui all’art. 612-bis, per avere reiteratamente minacciato, aggredito ed ingiuriato alcuni minorenni che facevano rumori nel cortile condominiale giocando con un pallone, intimando loro di non arrecare disturbo ed altresì tagliando con un coltello i palloni con i quali i bambini giocavano.
La Corte d’Appello della stessa città campana, con sentenza resa in data 21-4-2015, riqualificava il fatto contestato come delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), e riduceva la pena a mesi due di reclusione.
Avverso la sentenza d’appello interpone ricorso per Cassazione l’imputato personalmente, lamentando, in particolare, inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 610 c.p.
L’applicazione del principio di offensività in relazione all’art. 610 c.p.: la violenza o la minaccia rilevano penalmente solo se idonee ad incidere sulla libertà di autodeterminazione ed azione della vittima
Nel motivare il giudizio di fondatezza del ricorso, i giudici della Sez. V prendono le mosse dall’evidenziare come il bene giuridico tutelato dal delitto di violenza privata sia la libertà morale, da intendersi sotto il duplice aspetto della libertà di autodeterminazione secondo motivi propri e della libertà di azione orientata secondo le autonome scelte del soggetto; in altri termini, la norma incriminatrice di cui all’art. 610 c.p. intende proteggere l’intero processo di formazione e di attuazione della volontà personale del soggetto passivo nei confronti di condotte aggressive che mirino a condizionarne il momento genetico e quello esecutivo [in giurisprudenza, oltre alla sentenza della Cass. Pen., Sez. V n. 2283/2015 (ud. 11-11-2014), citata in sentenza, si vedano, ex pluribus: Cass. pen., Sez. V, 8-5-2015, n. 44548; Cass. pen., Sez. V, 31-10-2014, n. 10543; Cass. pen., Sez. II, 2-3-2011, n. 11738].
Ciò evidenziato, si perviene al punto “focale” della motivazione della sentenza in commento, laddove si precisa che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice devono comportare, per assumere penale rilevanza, la perdita o, comunque, la significativa riduzione della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo; statuiscono infatti i supremi giudici che “non ogni forma di violenza o minaccia […] riconduce alla fattispecie dell’art. 610 cod. pen., ma solo quella idonea – in base alla circostanze concrete – a limitare la libertà di movimento della vittima o influenzare significativamente il processo di formazione della volontà, incidendo su interessi sensibili del coartato” [si veda in questi termini, oltre alla pronuncia della Cass. pen., Sez. V n. 3562/2015 (ud. 9-12-2014), menzionata in sentenza: Cass. pen., Sez. V, 9-1-1985, n. 2545].
Questo enunciato discende direttamente – come afferma lo stesso Supremo Collegio – dal principio di offensività (in concreto), del quale costituisce dunque applicazione diretta alla fattispecie di cui all’art. 610 c.p. In base a questo principio – come noto – non è sufficiente, per la configurazione del reato, la astratta corrispondenza tra un evento naturalistico e una fattispecie incriminatrice, ma è necessario il realizzarsi di un evento giuridico, inteso come una concreta offesa all’interesse della vita tutelato dalla norma incriminatrice stessa.
Orbene, nel caso di specie la Corte ha escluso che la condotta posta in essere dall’agente avesse effettivamente recato una concreta offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice de qua, ovverosia – giova ribadirlo – la libertà psichica dell’individuo nella sua volontaria esplicazione; ciò in quanto – come rileva il Collegio di legittimità – pur se la condotta stessa comportava il temporaneo allontanamento dei minori dal cortile condominiale, essa non impediva loro di riprendere i giochi che turbavano la quiete dell’imputato.
A fondamento del principio di diritto statuito nel passaggio motivazionale supra riportato, i giudici della Sez. V pongono, oltre al principio di offensività, pure «l’esigenza di confinare nel “giuridicamente indifferente” i comportamenti costituenti violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali, inidonei – pur tuttavia – a rappresentare un reale elemento di turbamento per il soggetto passivo». Si tratta della riproposizione di un argomento già svolto dalla citata sentenza n. 3562/2015, che costituisce, a parere di chi scrive, una mera “appendice” dell’applicazione del principio di offensività rispetto al delitto di violenza privata.
L’illegittimità della costrizione dell’altrui volere: un (ulteriore) requisito per la configurabilità del delitto di violenza privata?
L’esclusione della configurabilità del delitto di cui all’art. 610 c.p. nel caso di specie viene motivata dalla Corte di legittimità – oltre che per non essersi tradotti i comportamenti violenti e minatori posti in essere dall’imputato in una lesione, o comunque in una sensibile riduzione, della libertà morale dei bambini – anche in base al rilievo per cui tale condotta “era motivata, secondo lo stesso capo d’imputazione, dal rispetto delle regole condominiali”, in quanto il regolamento di condominio prevedeva il divieto di giocare a pallone durante certi orari della giornata.
Orbene, con questo argomento – pure esso da ricondursi, comunque, alla ratio decidendi della pronuncia, ossia l’esclusione del carattere offensivo della condotta – la Sez. V pare richiamare l’orientamento giurisprudenziale che richiede, ai fini della configurabilità del reato di violenza privata, il requisito dell’illegittimità dell’azione violenta (o minatoria).
In una risalente sentenza della Corte di Cassazione si è infatti affermato, in via generale, che nel delitto di cui all’art. 610 c.p. la costrizione mediante violenza o minaccia a fare, tollerare o omettere qualcosa deve essere ingiusta, cioè non autorizzata da alcuna norma giuridica (così Cass. pen., Sez. V, 9-2-1984, n. 1770); e la coazione – ha precisato la stessa Sez. V in una decisione di pochi anni dopo – deve ritenersi giustificata non solo quando ricorra una delle cause di giustificazione previste dagli artt. 51-54 c.p., ma anche quando la violenza o la minaccia siano adoperate per impedire l’esecuzione o la permanenza di un reato (cfr. Cass. pen., Sez. V, 13-4-1989, n. 5423).
Di tale impostazione si rinviene traccia anche nella più recente giurisprudenza di legittimità: secondo Cass. pen., Sez. V, 21-1-2016, n. 8310, infatti, non integra gli estremi del reato di violenza privata la condotta preordinata a far desistere altri da un’azione illecita, in quanto la condotta che si assume impedita con violenza o minaccia, ad opera di un terzo, deve esprimere una lecita modalità di esplicazione della personalità.
Tuttavia, appare problematico, nella fattispecie concreta in relazione alla quale è stata resa la pronuncia in commento, individuare – nel (sostanziale) silenzio della decisione sul punto – quale sia la situazione “legittimante” l’azione violenta posta in essere dall’imputato alla quale hanno fatto riferimento i giudici della Sez. V.
Nell’affermazione secondo cui la condotta dell’agente era stata motivata dalla volontà di far rispettare il regolamento condominiale pare potersi evincere un richiamo alla ricorrenza della scriminante dell’esercizio di un diritto, ovvero alle disposizioni del regolamento de quo quali norme giuridiche “autorizzanti” la costrizione violenta.
Tuttavia, nella prima ipotesi, si ritiene di doversi escludere la configurabilità della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., dato che le norme dettate dal regolamento condominiale sono evidentemente limitate dalla legge penale (in un ovvio ossequio al principio gerarchico: lex superior derogat legi inferiori); nella seconda ipotesi, il carattere “normativo” delle disposizioni contenute nel regolamento condominiale è stata più volte esclusa (per lo meno con riferimento al regolamento di origine “contrattuale”) dalla giurisprudenza civile (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. II, 7-6-2011, n. 12291; Cass. civ., Sez. II, 29-11-1995, n. 12342).
Esito del ricorso: annullamento senza rinvio
Riferimenti normativi: Art. 610 c.p.
Cassazione penale, sezione V, sentenza 16 gennaio 2017, n. 1786. Quotidiano giuridico Wolters Kluwer di Antonio Chiari