Reati Ambientali

Reati Ambientali

In tema di reati ambientali, la natura di rifiuto di un materiale o di una sostanza – una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis T.U.A.) – non viene meno in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine). È quanto sostenuto dalla sezione III della Corte di Cassazione penale con sentenza n. 5442 del 6 febbraio 2017.

Particolare la questione esaminata dalla Cassazione, nella interessante sentenza qui commentata, in cui si affronta il tema della configurabilità del reato di gestione non autorizzata di rifiuti nel caso in cui, una volta appurato che il materiale o la sostanza sia qualificabile come tale, lo stesso venga fato oggetto di cessione, gratuita od onerosa a terzi. La Cassazione – in una fattispecie nella quale era stato contestato al Presidente del Consiglio di amministrazione di una società a r.l. di aver smaltito senza autorizzazione residui della lavorazione (trucioli e segatura), rifiuti non pericolosi, consegnandoli ad una ditta non autorizzata – ha accolto la tesi del PM che, nell’impugnare la sentenza assolutoria del giudice, sosteneva che, nel momento in cui il prodotto diventa rifiuto, la cessione ad altro soggetto non fa venir meno tale qualità, sì che il conferimento medesimo deve poter avvenire soltanto in forza delle dovute autorizzazioni.

Il fatto
La vicenda processuale segue, come anticipato, alla sentenza con cui il Tribunale assolveva l’imputato dai reati allo stesso ascritti ex artt. 81 cpv. c.p., 256, comma 1, lett. a), 279, comma 2, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, rispettivamente, perché il fatto non sussiste e per non aver commesso il fatto; con la prima imputazione, per quanto qui di interesse, era contestato – nella qualità di presidente del CdA della “I. s.r.l.” – di aver smaltito senza autorizzazione residui della lavorazione (trucioli e segatura), rifiuti non pericolosi, consegnandoli ad una ditta non autorizzata. In particolare, il tribunale negava ai materiali in esame la qualifica di rifiuto non già con riguardo alla loro natura od alla loro destinazione in ragione delle intenzioni del detentore (in questo caso, coincidente con il produttore), ma facendo leva sul fatto che fossero costantemente cedute ad altra società dietro fatturato pagamento di danaro.

Il ricorso

Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica, in particolare sostenendo che la sentenza aveva erroneamente negato ai citati scarti di lavorazione la natura di rifiuto, invero da riconoscere in quanto cosa – rectius: residuo di processo di produzione – di cui il detentore intende disfarsi, a prescindere dal carattere gratuito od oneroso di ciò; nel momento in cui il prodotto diventa rifiuto, dunque, per il PM, la cessione ad altro soggetto non farebbe venir meno tale qualità, sì che il conferimento medesimo dovrebbe poter avvenire soltanto in forza delle dovute autorizzazioni. E senza che, peraltro, potesse richiamarsi la disciplina in materia di sottoprodotto, della quale invero non ricorrevano i presupposti.

La decisione della Cassazione
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso, così aderendo convintamente alla corretta tesi del Pubblico Ministero.
Per migliore intelligibilità della questione, va qui anzitutto ricordato che ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a), d. Igs. n. 152 del 2006, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi; esattamente quel che accade con gli scarti di produzione, come nel caso di specie, salva la possibilità della diversa qualificazione in sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis, d. Igs. n. 152 del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge, invero neppure ipotizzati nella sentenza in esame. Con particolare riferimento, poi, alla segatura ed ai truciolati, scarti delle lavorazioni in legno operate dalla “I. s.r.l.”, la giurisprudenza di legittimità ne ha costantemente affermato la natura di rifiuto (ex plurimis: Cass. Pen., Sez. 3, n. 51422 del 6/11/2014, D’I.; Id., Sez. 3, n. 37208 del 9/4/2013, C.; Id., Sez. 3, n. 48809 del 28/11/2012, S.; Id., Sez. 3, n. 18743 del 19/10/2011, R.), salvi i casi in cui il citato onere probatorio in senso contrario – all’evidenza incombente sull’interessato – risulti soddisfatto.

Orbene, con riguardo al caso in esame, la S.C. ha osservato che il Tribunale aveva in effetti errato, negando apoditticamente ai materiali in esame la qualifica di rifiuto non già con riguardo alla loro natura od alla loro destinazione in ragione delle intenzioni del detentore (in questo caso, coincidente con il produttore), ma facendo leva soltanto sul fatto che fossero costantemente cedute ad altra società dietro fatturato pagamento di danaro. Il che, però, per i Supremi Giudici, non risulta sufficiente per escludere la natura medesima di rifiuto, che, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis sopra citato), invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il negozio giuridico riguardasse l’oggetto stesso della produzione e non – come in effetti – proprio un rifiuto.

Ciò, peraltro, a prescindere dal “valore” economico o commerciale di questo, specie nell’ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica; d’altronde, come già sostenuto dalla stessa Cassazione (Cass. Pen., Sez. 3, 20 gennaio 2015 n. 15447, N., inedita), nell’indagine in esame – volta all’accertamento dell’effettiva natura di rifiuto – si deve evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare “a monte” il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene.

Opinare in termini diversi, secondo gli Ermellini, comporterebbe dunque la facile creazione di pericolose aree di impunità, nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una fattispecie di reato ben potrebbero esser dissimulate da accordi – dolosamente preordinati – volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, invero già “a monte” acquisita ed insuscettibile di esser cancellata.

Da, qui, dunque l’accoglimento del ricorso del PM.
A cura della Redazione Wolters Kluwer, Quotidiano Giuridico
Cassazione penale, sezione III, sentenza 6 febbraio 2017, n. 5442.

Avvocato Francesco Murru
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