Quando non Si ha Diritto alla Provvigione

Quando non Si ha Diritto alla Provvigione

IL CASO: Compravendita: il mediatore non ha diritto alla provvigione se il suo intervento è stato inutile.

Il diritto alla provvigione del mediatore non sussiste quando, dopo una prima fase di trattative avviate con l’intervento dello stesso, senza risultato, le parti siano successivamente pervenute alla conclusione dell’affare per effetto d’iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili con le precedenti o da queste condizionate, sicché possa escludersi l’utilità dell’originario intervento del mediatore. Incombe sul mediatore l’onere di dimostrare compiutamente l’esistenza di un utile e valido contributo causale tra la propria attività e la conclusione dell’affare.

La questione
Un’agenzia immobiliare citava in giudizio le parti di un contratto di vendita immobiliare, chiedendo la loro condanna al pagamento in suo favore degli importi spettanti a titolo di provvigione per l’attività di mediazione svolta in relazione all’affare, esponendo di aver svolto attività sufficiente al fine di determinare, grazie al suo intervento, la conclusione del contratto; si costituivano in giudizio i convenuti che, nel contestare la domanda avversa, ne chiedevano l’integrale rigetto, formulando istanza subordinata di rideterminazione del compenso provvigionale nella misura minima.
La soluzione ed i precedenti
La sentenza di Tribunale di Roma – Sezione X civile – Sentenza 17 gennaio 2017 n. 656, nel dirimere la controversia, parte da alcuni dati pacifici tra le parti: documentalmente comprovato, è l’effettivo svolgimento di attività di intermediazione da parte della società attrice e pure documentalmente dimostrato che l’acquisto si sia perfezionato in epoca largamente successiva alla scadenza dell’incarico di mediazione.
La corte romana muove dal principio di fondo per cui, per il riconoscimento del diritto del mediatore al pagamento del compenso provvigionale, l’affare deve ritenersi concluso quando tra le parti poste in relazione dal mediatore si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di essa ad agire per l’esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno (Cass. 02/04/2009, n. 7994); per l’insorgenza del diritto alla provvigione non è sufficiente che l’affare sia stato concluso, ma, in forza dell’art. 1755 c.c., occorre che la conclusione sia avvenuta per effetto ed a causa dell’intervento del mediatore, il quale deve aver messo in relazione i contraenti con un’attività causalmente rilevante ai fini della conclusione del medesimo affare (tra le altre, cfr. Cass., n. 15880/2010; Cass. 18/09/2008, n. 23842).
Orbene, ai fini dell’effettiva maturazione, in capo al mediatore, del diritto al compenso provvigionale, è necessario verificare che l’affare si sia concluso tra le parti e che detta conclusione si ponga in rapporto causale diretto con l’opera svolta dal mediatore, ancorché quest’ultima sia consistita nella semplice attività di reperimento e nell’indicazione dell’altro contraente, o nella segnalazione dell’affare, e sempre che l’attività costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore, che sia stata poi valorizzata dalle parti.
In particolare, il diritto del mediatore alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, pur non richiedendosi che, tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare sussista un nesso eziologico diretto ed esclusivo, ed essendo, viceversa, sufficiente che, anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo, la “messa in relazione” delle stesse costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto.
Ne consegue che la prestazione del mediatore ben può esaurirsi nel ritrovamento e nell’indicazione di uno dei contraenti, indipendentemente dal suo intervento nelle varie fasi delle trattative sino alla stipula del negozio, sempre, che la prestazione stessa possa legittimamente ritenersi conseguenza prossima o remota della sua opera, tale, cioè, che, senza di essa, il negozio stesso non sarebbe stato concluso, secondo i principi della causalità adeguata (Cass. 08/03/2002, n. 3438).
Il diritto al compenso non sussiste quando, dopo una prima fase di trattative avviate con l’intervento del mediatore senza risultato, le parti siano successivamente pervenute alla conclusione dell’affare per effetto d’iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili con le precedenti o da queste condizionate, sicché possa escludersi l’utilità dell’originario intervento del mediatore (Cass. 08/07/2010, n. 16157).
Secondo la sentenza in esame, è evidente che, sul piano probatorio, incomba sul mediatore l’onere di dimostrare compiutamente l’esistenza di un utile e valido contributo causale tra la propria attività e la conclusione dell’affare, prova che non può, tuttavia essere fornita semplicemente dimostrando la successione cronologica tra l’attività svolta e la successiva conclusione dell’affare, in base al paralogismo “post hoc, ergo propter hoc”, ma che deve integrare specificamente il requisito della rilevanza causale dell’attività di intermediazione svolta dall’originario mediatore per l’effettiva conclusione dell’affare, non essendo sufficiente, in tal senso, la prova, da parte del mediatore, di avere accompagnato l’acquirente a visitare l’immobile, ne’ di avere appianato contrasti in ordine alle modalità di pagamento del prezzo, né che l’acquirente si era più volte recato nella sede del mediatore (cfr. Cass., n. 5760 del 11.6.1999).
Nel merito della vicenda specifica, secondo il giudice parte attrice non è stata in grado di dimostrare compiutamente che il suo intervento abbia fornito quel contributo che, secondo i principi della causalità adeguata, ha consentito la successiva conclusione dell’affare tra le parti; la attrice, secondo il giudice, si è infatti limitata ad allegare agli atti copia della documentazione e della corrispondenza tra le parti, da cui si evince la sussistenza della trattativa e lo svolgimento di attività di intermediazione tra i futuri e possibili contraenti (circostanze, peraltro, incontestate tra le parti).
Nessuna prova la società attrice ha fornito che, proprio grazie al suo intervento ed alla mediazione svolta, le parti siano potute addivenire alla conclusione dell’affare e che, a contrario, senza la sua intermediazione, il contratto non sarebbe stato concluso: è evidente, secondo il giudice, che le parti hanno stipulato il contratto definitivo sulla base di diverse valutazioni e presupposti di natura economica, dal momento che hanno raggiunto, nel corso della successiva trattativa, equilibri negoziali radicalmente differenti dalla originaria prospettazione dell’attrice (prezzo di vendita di euro 325.000,00 a fronte di quello di euro 369.000,00 prospettato nell’incarico di mediazione).
Inoltre, è risultato ampiamente dimostrato in corso di causa che proprio l’atteggiamento di chiusura della società attrice impedì alla potenziale acquirente di formulare proposte scritte ai venditori, avendo l’agenzia ritenuto troppo basso il prezzo da lei offerto: è evidente che tale atteggiamento abbia costituito non già l’antecedente logico della futura vendita, ma l’impedimento assoluto al perfezionamento della stessa; è pure evidente che proprio tale chiusura, che ha di fatto interrotto i contatti tra le parti, è stata superata ed ovviata nel corso delle nuove e diverse trattative instauratesi casualmente tra le parti grazie al fortuito intervento del portiere di altro stabile, e che hanno, di fatto, consentito ai contraenti di avviare ex novo una fase totalmente diversa della trattativa, fino a giungere alla conclusione del contratto. Da ciò consegue che non solo la mediazione della società attrice non si pone in alcun rapporto di effettiva e concreta causalità con la conclusione del contratto, ma che, al contrario, è stato proprio l’atteggiamento di chiusura dell’allora mediatrice alle richieste della acquirente a determinare il naufragio e la chiusura della originaria trattativa, laddove invece è solo grazie al successivo incontro fortuito tra le parti ed al mutamento delle condizioni economiche dell’intero affare che il contratto è stato positivamente concluso; in altre parole, la mediazione della attrice non ha condotto alla conclusione di alcun contratto, impedendo la formazione di quello in fieri tra le parti, mentre la conclusione dell’affare si è verificata solo per effetto d’iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili ai precedenti contatti avuti con l’agenzia di mediazione o da questi condizionate.
La sentenza ed il percorso argomentativo seguito, in merito a questi ultimi passaggi, appaiono condivisibili solo se calati nel contesto specifico dei fatti di causa, ma rischiano, se letti in linea di principio, di essere errati e fuorvianti. Infatti, l’esclusione del nesso causale attività del mediatore/conclusione dell’affare è stata ritenuta sussistere unicamente in base al quadro completo delle emersioni istruttorie: se l’agenzia ha provato di aver svolto l’attività necessaria e sufficiente, le controparti hanno ben provato l’esistenza di elementi impeditivi l’accoglimento della domanda, dando dimostrazione di fatti successivi, rispetto all’operato dell’agenzia, idonei nel loro complesso ad eliminare il nesso causale con la conclusione dell’affare. Insomma, si sono inseriti degli eventi che hanno interrotto la serie causale: non ultimo proprio il rifiuto dell’agenzia di recepire una proposta d’acquisto più bassa di quanto richiesto dal venditore, inducendo l’acquirente a riprendere per altri canali le fila della trattativa.
Non appare invece affatto corretto onerare l’agenzia della prova del “nesso causale”, elemento questo, la cui sussistenza dipende da un puro giudizio di valore e da un apprezzamento che non può essere chiaramente, in molti casi, oggetto di prova documentale, e che non può neppure essere affidato alla testimonianza, trattandosi del frutto di un giudizio valutativo.
In altri termini, il principio di ripartizione dell’onere probatorio, per come affermato dalla citata sentenza della Cassazione del 2009, non può essere spingersi a sancire una sostanziale probatio diabolica a carico del mediatore, che risulterebbe assolutamente gravosa, per non dire sostanzialmente impossibile da essere assolta, in tutti casi (e sono certamente la maggioranza) in cui il medesimo abbia svolto una prima attività di avvicinamento delle parti/presentazione dell’affare, poi valorizzata dai contraenti anche senza che il mediatore stesso abbia continuato a occuparsi della trattativa e quindi non abbia avuto, per sua scelta o più spesso per iniziativa delle parti, il polso della situazione e quindi la piena conoscenza dello svolgimento dei fatti successivi al suo intervento (trovandosi nella quasi totale impossibilità di disporre di qualsiasi strumento probatorio, stante la sua estraneità ai fatti).
Va invece ritenuto che, sul piano probatorio, dovrebbe assolutamente ritenersi sufficiente la dimostrazione dell’esistenza di un’attività del mediatore astrattamente dotata del carattere di completezza ai fini della conclusione dell’affare, e l’esistenza di un affare concluso tra le parti messe in relazione dal medesimo.
In altri termini, dimostrate sia l’esistenza di un’attività astrattamente idonea svolta dal mediatore, sia di un affare concluso tra le parti a seguito di loro iniziative, la sussistenza del nesso causale dovrebbe essere desunta in forza di una mera presunzione semplice: se l’attività astrattamente idonea e di per se stessa completa è stata seguita dalla conclusione dell’affare, la conseguenza che si dovrebbe trarne, secondo una regola di buon senso e di comune esperienza, è l’esistenza, tra i due momenti, non solo di una successione cronologica, ma anche consequenziale. Nessun “paralogismo”, ma semplice presunzione, pienamente legittima.
Resta fermo, ovviamente, che la parte intermediata possa ben contestare l’esistenza di tale rapporto causale, adducendo e provando l’esistenza di serie causali autonome di eventi che si inseriscano tra i due momenti ed abbiano interrotto il rapporto eziologico che altrimenti li legherebbe.
Peraltro, la sentenza di Cassazione suddetta ha ritenuto che per dimostrare il nesso causale non sia sufficiente, per il mediatore, provare di aver accompagnato l’acquirente a visitare l’immobile, né di avere appianato contrasti in ordine alle modalità di pagamento del prezzo, né che l’acquirente si era più volte recato nella sede del mediatore, mentre però, in molte altre occasioni, proprio la stessa Corte ha accolto la domanda del mediatore, in casi in cui il mediatore aveva fatto visitare l’immobile, tra gli altri, a persona che, successivamente e dopo la scadenza del mandato all’agenzia, si era determinata ad acquistare contattando direttamente il venditore (Cass. 11/04/2003, n. 5762), od in cui il mediatore aveva fissato un appuntamento presso il cantiere della società alienante, aveva fatto visionare al futuro acquirente l’intero complesso edilizio oggetto della trattativa ed aveva mostrato una delle unità immobiliari di cui il complesso stesso si componeva (Cass. 08/03/2002, n. 3438).
Le suddette osservazioni vengono ampiamente recepite da più recente giurisprudenza (Cass. 05/03/2009, n. 5339), secondo la quale il giudice, per accertare la sussistenza del nesso di causalità, deve seguire il seguente percorso argomentativo: – in primo luogo, deve ritenere sufficiente l’allegazione, da parte del mediatore, dell’efficienza causale del proprio intervento nei confronti della conclusione dell’affare; in secondo luogo, deve accertare, ai fini dell’esclusione della prova del nesso di causalità, la sussistenza di una particolare circostanza: la non riconducibilità economica dell’affare concluso a quello intermediato, senza considerare gli «elementi di contorno afferenti ai comportamenti delle parti.
In sostanza, provata la conclusione dell’affare e lo svolgimento dell’attività del mediatore, il giudice dovrà concludere per la sussistenza del nesso di causalità tra i due fatti, a meno che gli intermediati non forniscano la prova contraria: ove il contratto di compravendita venga successivamente concluso proprio fra il mandante e la persona inizialmente contattata dall’agente, è da presumere che l’intervento di quest’ultimo abbia quanto meno agevolato il contatto fra le parti contraenti, restando a carico di queste ultime l’onere di dimostrare il contrario (Cass. 13/03/2009, n. 6171).
Si conclude osservando, in generale sul tema del nesso causale, che, in realtà, la giurisprudenza guarda più al concetto di “utilità” dell’operato del mediatore, che al rapporto eziologico in senso stretto. Emblematicamente, una giurisprudenza (Trib. Firenze, 20/09/2007), ha riconosciuto la provvigione al mediatore che aveva condotto una trattativa tra la proprietà di un’azienda e determinati soggetti interessati a costituire una società per prendere in locazione la medesima. Saltata la trattativa, qualche tempo dopo uno dei soggetti era stato assunto per vari mesi a lavorare presso l’azienda come direttore. Grazie ad iniziative autonome di questo, e senza alcun ulteriore apporto del mediatore, erano stati reperiti dal medesimo altri soci, ed era stato concluso il contratto di locazione a condizioni diverse da quelle originariamente prospettate. L’utilità dell’apporto del mediatore è stata riconosciuta anche nell’aver meramente creato il presupposto (l’assunzione del socio presso l’azienda) della successiva conclusione di un affare, ottenuta grazie ad iniziative del tutto autonome.
A cura della Redazione Wolters Kluwer, Tribunale di Roma, sez. X, sentenza 17 gennaio 2017, n. 656
Avvocato Francesco Murru
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