Paan, Cumpanaadegh e Sacralità del Desco

Paan, Cumpanaadegh e Sacralità del Desco

Il pane in passato, un po’ meno oggi nell’opulenta società occidentale, ha sempre rivestito un carattere quasi sacro nel sostentamento della famiglia. Esso era il simbolo del lavoro cheproduceva il frutto o il reddito indispensabile per alimentare le famiglie molto numerose di un tempo.

A partòom da dimondi luntàan … purtèe pasinSia: la sacralità del pane e del frumento necessario alla sua produzione ha origine lontanissima nel tempo. Addirittura risalente al Neolitico, quando le prime tecniche di coltivazione cominciarono ad affrancare le antiche popolazioni di cacciatori e raccoglitori dall’incubo delle carestie.
Secondo la mitologia greca fu Demetra, dea delle messi, – Cerere per i Romani – a donare all’uomo i cereali, in particolare il frumento da cui appunto si ricava la farina per panificare. Da sempre il pane ha avuto una sacralità che nel mondo greco prima e romano poi era legata alla fecondità della terra, tanto che Demetra era celebrata durante i riti dei misteri eleusini e ad essa veniva offerto il pane Thargelos preparato con la prima farina dopo la mietitura durante le feste rurali che nell’antica Grecia si svolgevano da metà maggio a metà giugno, epoca della raccolta del grano. Nella cultura e religione cristiana il pane assume centralità legata all’ultima cena e alla metafora del corpo di Cristo: «Questo è il mio corpo.» e con l’identificazione ostia-corpo di Cristo si compie un processo di sublimazione del pane che da alimento diventa anche mezzo di comunicazione capace di trasmettere significati profondi. «Dacci oggi il nostro pane» recita la preghiera base della religione cristiana-cattolica: dove pane è sinonimo di cibo, perché nel cuore del Mediterraneo, dove tale religione si è sviluppata, la cultura del pane ha avuto origine e diffusione. Così questo alimento è un tema ricorrente nella simbologia cristiana. Come esempio basterà ricordare che ad Adamo – scacciato dal Paradiso – fu imposto: «Ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte».
Anche il Fascismo non sfuggì al sacrale rispetto del grano e del pane; lo dimostrano le eclatanti Battaglie del Grano a partire dal 1925 che, per altro, portano in sei anni all’autosufficienza del nostro Paese. Indimenticabile e nel contempo terribilmente ridicola l’immagine nei film Luce del Duce Trebbiatore (a fàagh tutt mè), che, a torso nudo, capellaccio e occhialoni da motociclista anti polvere, grida al macchinista di avviare il ciclo di lavorazione di un’enorme trebbiatrice e contemporaneamente comincia a spostare grosse abbracciate di spighe.

1938 Aprilia – Il Duce trebbiatore

L’epicità raggiunse l’acme con le scritte murali del tipo:
È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende. E il vomere e la lama sono entrambi di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori.
Non sprecate il pane quotidiano.
Pane, lo so, per averlo provato, che cosa vuol dire la casa deserta ed il desco nudo.
Rispettate il pane: sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrificio.
Ma ben presto arrivò la guerra e per molti italiani questo tragico evento è unito strettamente al ricordo della fame, della paura e della povertà. Infatti sono molto più tristi e senza speranza le immagini degli Orti di Guerra dei primissimi anni ’40, quando anche le aiuole pubbliche venivano utilizzate per vane e improbabili coltivazioni di grano e il pane era razionato con la tessera annonaria.
Orti di guerra alla stazione ferroviaria di Modena – Tessera annonaria anni ‘40
Ogni persona a seconda dell’età e del lavoro, riceveva una tessera di carta stampata (tessera annonaria) con sopra dei bollini. Ognuno di essi permetteva di comprare, un certo giorno preciso, ad un certo prezzo, un certo genere alimentare. Per esempio nel 1941 la quota di pane a persona era di 200 gr al giorno, saliva a 300 gr per gli operai e a 400 gr per chi era addetto a lavori pesanti. Nel marzo 1942 ci fu una riduzione di 50 per ciascuna quota. Negli ultimi mesi di guerra per le famiglie italiane procurarsi il cibo rappresentò la maggiore preoccupazione.
Questi ricordi di mio padre sulla fame patita e la voglia di pane, continuamente ripetuti, hanno accompagnato il periodo iniziale della mia vita e mi hanno lasciato, pur non avendo vissuto per duro periodo, un rispetto assoluto del pane.

La presenza costante del pane nella cultura di tutti i tempi e di tutti i popoli ha conferito a questo alimento una sacralità che costituisce anche un impegno quotidiano sia per la conservazione (dalla vecchia madia al moderno congelatore) che per l’uso dal paan vecc’ (duro o stantio). E per questi aspetti la cultura contadina ci insegna molto trasferendoci l’impossibilità di buttare il pane che, quando proprio non può essere mangiato o usato per altri cibi, può sempre alimentare molti animali domestici.
Ognuno di noi può fare propria un’affermazione che ci viene dal passato: «Il pane è un dono generoso della natura, un cibo insostituibile… Si addice ad ogni ora del giorno, ad ogni età della vita, a ogni persona. È così connotato all’uomo che ce ne nutriamo, si può dire, fin dalla nascita e non ce ne stanchiamo mai fino alla morte».
Non per niente di una brava, onesta e disponibile persona si dice … l è bòun come al paan (è buono come il pane).
Mentre un magnapaan (o un rubapaan) a tradimèint è colui che se lo accaparra ingiustamente e con artati inganni.
Anche il motto social politico “ Pane e Lavoro” la dice lunga, anche se qualcuno tenderebbe a scantonare un po’ sul secondo.
Di una attività pur umile e modesta, ma di sicuro, quanto limitato reddito si dirà: L a t darà sèmmper un paan ! Ti darà sempre un pane.
È indispensabile per il viandante che deve essere attrezzato del necessario: Paan, gabaan e bastòun per i caan. (Pane per sfamarsi, un lungo cappotto con cappuccio per il freddo e la pioggia e un bastone per difendersi dagli animali e talora dagli umani).

Forno di campagna all’esterno
Commovente e profondamente religiosa era la frase pronunciata prima di mettere la pagnotta nel forno, quando la rezdòora la tagliava leggermente a croce: “T poss cherpèer!” Che tu possa crepare e cuocerti bene, affidando li sorti della cottura finale del prezioso alimento nelle misericordiose mani divine.

La croce sul pane
Con il pane si può realizzare un pasto completo: dall’antipasto di crostini al dolce (torte e soufflé); la nostra fantasia si può sbizzarrire, perché il pane (come l’olio o il burro) non può mancare in nessuna casa: è una presenza rassicurante che merita il più profondo rispetto.

Ci sono però sempre state delle regole, che definirei morali, per consumare il pane e il cibo in generale.
Naturalmente anche la cultura locale e il dialetto sono intrisi di immagini, esempi, modi di dire che ben interpretano il sentimento su questa tematica.
Metèer a tèevla al paan o metèer la famja a tèevla (mettere il pane in tavola o mettere la famiglia a sedere a tavola) erano frasi che significavano che il capofamiglia o la moglie avevano guadagnato o rimediato il sufficiente per dar da mangiare ai loro cari. E alla fine del pasto, al rezdòor, alzandosi da tavola, poteva dunque dire sospirando profondamente, tra il soddisfatto e preoccupato: “Bèin!! … e anch incòo a i om magnèe!! … Dmaan a vdrèemmm!“ (Bene! Anche per oggi abbiamo mangiato! Domani vedremo!).
E nel caso ci fossero stati abbondanti cibo e vino: “S l’ à va mèel … cla vàaga, sèmmper acsè!” Se va male che vada sempre così.
Il pane però era in ogni caso l’elemento portante della dieta e mangiato da solo era paan biòos: definizione che significava consumarlo da solo senza companatico.

1960 Forno di città
C’erano poi delle regole ferree che anche oggi sono presenti in molte famiglie, nonostante progresso, il benessere e l’abbondanza: retaggi e scrupoli indeboliti fin che si vuole, ma che sembrano (e meno male) non voler scomparire.

Ciapèer di scupasòun per avèer magnèe al cumpanaadegh a la vigliàaca. Prendere degli scapaccioni a tavola in famiglia per aver mangiato dei cibi senza pane. Marco Giovanardi ricorda che nel primo dopoguerra (ma anche più tardi come scrupolo sopravvissuto, anche al boom di Carpi), quando ci si doveva sfamare in prevalenza con pane e patate (chi abitava in città) era considerata grave colpa cibarsi del companatico senza pane. L era un comportamèint da vigliàach, perchè per impiniir la pansa d un, a s tuliiva via una parte della razione a chi eter fradèe. (era un comportamento vile, perché si portava via del mangiare pregiato agli altri fratelli e familiari).
Una volta era ferma tradizione che la gente mangiasse tutto con il pane, anche con i cibi più diversi. Anche con l’arrivo del benessere c’è chi ha conservato per sempre questa antica abitudine di consumare un minimo di companatico con tanto pane, anche con la pasta asciutta, le patate lesse o con la frutta.
Gianfranco Imbeni, eccelso e caustico dipingitore di carpigianità, opportunamente mi rammenta, a proposito di “sacralità del desco”, i versi ottonari di quel protodemocristiano che fu il Manzoni: “Sia frugal del ricco il pasto, / ogni mensa abbia i suoi doni; / e il tesor negato al fasto / di superbe imbandigioni / scenda amico all’umil tetto: / faccia il desco poveretto / più ridente oggi apparir” (Il Natale, inno sacro).
Imbeni ricorda anche che quand’era ragazzo lui, il mettersi in bocca del puro companatico veniva condannato e impedito dai grandi come un “magnèer a braama ed paan”. Il che, per logica conseguenza, lo autorizzava, quanto al pane, a consumarlo a volontà.
A bramarlo e divorarlo … sì ! Ma trattandolo con buon rispetto. Ed era sempre pronta, a nostra edificazione, la leggenda di Gesù Bambino che scivola giù dalle braccia della Madre e dall’asinello durante la fuga in Egitto, per raccoglierne delle briciole abbandonate per terra.
Anche il Baffo, noto esperto di apparati radio e simili e gestore della baracchina estiva nel Parco della ResistenSa, rivive la sua esperienza familiare: “Mè mèeder, ch l era na maruchiina, l am dèeva di cupòun ch am fèeva vedèer al stèeli, se a meSdèe a magnèeva dal salaam o dal furmàj seinza paan. E pò, de spess, l’era anch pan vecc’ staladìì”. (Mia madre, che veniva dal sud, mi dava degli scappellotti che mi facevano vedere le stelle, se a mezzogiorno mangiavo del salame o del formaggio senza pane. E spesso di si trattava di pane vecchio).
Per altro anche a casa mia mi sono sempre sentito rimproverare, (sèinsa di scupasòun, però), perché mangiavo il formaggio senza pane. Mio padre, che da ragazzo, durante la guerra, aveva patito la fame, tutte le volte mi rimproverava, anche quando la situazione economica della famiglia era ormai prospera. Era un retaggio MORALE, quasi un offesa alla povertà. Anche tenere il pane rovesciato era irrispettoso. Un uso che io seguo scrupolosamente anche oggi.
Ma i tempi cambiavano e viceversa quando non volevo mangiare qualcosa e non stavo bene, mi veniva invece raccomandato:”Dai! mangialo … anche senza pane! Anch s te n gh è mia faam.” (anche se non hai fame).
E fare briciole? Anche questo era biasimevole ci ricorda Anna Maria Ori. Mai e poi mai sbrislèer al paan! (sbriciolare il pane). Fare troppe briciole spezzando il pane, era come metterlo rovesciato sulla tovaglia, in tante case era un tabù.
Come prima si ricordava: “Persino Gesù scese da cavallo, per raccogliere ‘na briisla ed paan!” Un leggenda educativa che la vecchia zia rievocava con tono minaccioso e intimandola col dito indice veementemente alzato ai bimbi che stavano mangiando
An gh è dubbi t en spòos un puvrètt, te fèe tròopi briisli oppure te spusèe un sgnòor!!! (Non c’è dubbio che tu non sposerai un poveretto, fai troppo briciole oppure, a nozze avvenute … hai di certo sposato un signore che ti permette di consumare il pane). Con questi ammonimenti la madre sgridava la figlia che faceva tante briciole sulla tovaglia.
Altro avvertimento simile rivolto a chi sbriciola troppo il pane a tavola: T en diventerèe mai un sgnòor! Non diventerai mai ricco.
Un’altra cosa proibitissima per i bambini l era scavèer cun i dì in di filòun dal paan per magnèer sòol al mujaan. Era normale che ai bambini piacesse più la mollica della crosta e si impegnavano a scavarla col dito nei filoncini. Esternamente il pane sembra intonso, ma quanto il capo famiglia lo prendeva in mano e si accorgeva dello scempio erano urla e minacce. A n s pòol mia strasinèer acsè al paan!! Non si può rovinare così il pane.
Magnèer al paan cun na maan sòola. Uno splendido modo di dire, suggeritomi dal prof Antonio Martinelli, che viene riferito a una persona che conduce perennemente una vita molto indaffarata, tale da non consentirle di sedersi tranquillamente a tavola e mangiare il pane con due mani. Il concetto si addice bene anche ai tanti occupatissimi carpigiani che, negli anni ’60 in pieno boom economico, non pensavano ad altro che a produrre, a vendere e a guadagnare.
Mia madre negli anni ’60, a benessere raggiunto, preparava per me e mio fratello dei panini imbottiti per la merenda. Usava al paan mòunta-sù all’olio del Forno di Chiesi in Corso Fanti. Ivo Chiesi era un uomo burbero amico di mio padre, una persona di poche parole che a noi bambini metteva un certo timore reverenziale, anche perché era il presidente del Tiro a Segno di Carpi.

Paan mòunta-sù
Il nome della chioppetta deriva dal fatto che si usava un oblungo rettangolo di pasta, lo arrotolava contemporaneamente da entrambi i lati (che così montavano su – da cui il nome) e le due “pallottine” così ricavate i gnivèen strichèedi su (venivano unite) di traverso con una leggera e sapiente pressione. Al monta-sù è un tipo pane con mollica morbida e crosta sottile, prodotto fin dal Quattrocento nel nord Italia. Gli

ingredienti sono farina 0, acqua, sale, olio e lievito; amalgamati tra loro, danno vita a un impasto soffice, simile a quello delle baguettes francesi dalle quali, con tutta probabilità, trae le sue origini.
Mia madre divideva le due parti, le tagliava per il lungo e le imbottiva o di salame o di una stupenda cioccolata alla gianduia Novi, che si comprava presso il Forno Sacchi di Corso Alberto Pio per 500 lire in un bellissimo barattolo rettangolare di plastica con il tappo rosso con riportato a rilevo N O V I. Questo contenitore era poi quello che utilizzavo per conservare le mie palline di vetro.
Salame e gianduia Novi nel barattolo di oggi
Per rientrare in tema, una volta, avrò avuto poco più di dieci anni, successe che non avevo assolutamente fame e sconsideratamente buttai i due panini nel secchio del pattume. Ma li avevo nascosti male e i miei genitori se accorsero. Fu una vera tragedia e fui processato sommariamente e con grande severità. Mia madre: “Butèer via al paan? L è un pchèe còuntra nostèer Sgnòor! Peinsa a tutta la giinta ch l a mòor ed faam!” (Buttare via il pane! E’ un peccato contro Dio! Pensa a tutta la gente che muore di fame!). Mio padre diceva che il pane non si butta mai: il pane è sacro e va rispettato. Ascoltai la solenne sgridata a testa bassa e mi sentii un verme.
Questo scrupolo sul pane mi è rimasto ancora oggi e a casa mia ben difficilmente lo si sciupa, ben aiutato in questo anche dal famelico golden Lucky di mio fratello, che per un crostino vecchio o una mollica indurita farebbe qualsiasi cosa, dimenticando ogni minima dignità.

Cave panem Pane fatto in casa
Circa il pane vecchio è quasi superfluo dire che non veniva certo buttato. Poteva essere grattugiato (paan rasèe) per impanare altri cibi o fare l’addensante, assieme al formaggio, per le polpette, oppure lo si usava alla mattina dopo a pezzetti dentro la tazza di caffelatte. Indimenticabile il toch toch che si produceva col cucchiaio, battendo la superficie ancora dura di un crostino da affogare nel latte.

In altre case si mangiava la panèeda preparata col pane vecchio bollito e dentro due spicchi d’aglio per insaporirlo, un po’ di sale e una lacrima d’olio.
Oppure la classica suppa in bròod (zuppa in brodo) col pane tagliato a fettine immerso nel brodo bollente.
Da tutti questi episodi di vita che ho vissuto direttamente o che mi hanno raccontato, si evidenza il grande riguardo per il lavoro, per la fatica che c’erano dietro al cibo. Questo senso di rispetto era fortissimo, con connotazioni, anche religiose, che convivevano con qualunque idea politica, bianca, rosso e nera che fosse.
Da ricordare anche che quando a tavola capitava di incrociare casualmente le posate, sempre la zia mi diceva: “Guasta cla cròos lé … cla pòorta méel!” (Guasta quella croce che porta male). Sarno Rossi ricorda che tutt’ora se gli capita di incrociare o vedere qualcuno che ha le posate sovrapposte, in silenzio, senza clamore, gli viene d’istintivo di guastare la croce, non per superstizione, sciocchezze a cui non crede ASSOLUTAMENTE, ma per rispetto alla SACRALITA’ della tavola a cui prima si accennava.
OGGI tutte queste categorie sono SCOMPARSE e incomprensibili per i consumatori di merendine e di Esta-tè.

Tipiche qualità di pane locale
1910 ca Apertura Forno Camurri. La donnona è Eugenia in Camurri; Amos Camurri seduto sulla cesta è il nonno di Cristina Bonaretti.
1920 Piazza Garibaldi drogheria e forno a legna di Ernesto Morandi; in attività sino anni 1960.

a cura di Mauro D’Orazi, Frutto del lavoro di ricerca sul web, con suggerimenti e con il contributo costante del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpSàan” e del rughlètt di affezionati del bar Tazza d’Oro alle 7 del mattino e di tanti altri amici e amiche sempre pronti a portare la loro esperienza personale e familiare al servizio di un dialetto che deve e può continuare a essere parlato e vissuto.

Mauro D’Orazi
Esperto in Dialetto Carpigiano