Oreste e altri Ricordi

Oreste e altri Ricordi

FILOSOFIA DELLA FOTOGRAFIA
Sul piano luminoso iniziavo a passare in rassegna i fotogrammi in negativo bianco/nero di una eccezionale raccolta. Forse seicento, settecentomila scatti realizzati da due fratelli Gasparini fotografi che a Carpi hanno lavorato dall’immediato secondo dopoguerra fino a tutti gli anni settanta. Il loro operare, ancor più che su commissione e in studio, era prevalentemente ambulante: specialmente nei giorni festivi, si piazzavano nei punti di maggiore frequentazione e, con l’approvazione dei passanti, scattavano una o più immagini che il potenziale cliente avrebbe poi potuto decidere se acquistare o no.

Sulla loro potente, appariscente e invidiata moto Guzzi, attraversavano l’intera campagna limitrofa allora assai popolata di manodopera agricola, dove, in quei difficili anni dell’immediato secondo dopoguerra, caratterizzati da una forte incertezza economica, venivano messe in campo tutte le risorse possibili, da quelle più arcaiche alle moderne: anche là scattavano fotogrammi su fotogrammi e in essi si legge uno spirito che va ben oltre la mera fotografia a fini commerciali, piuttosto emerge chiaramente il loro stato d’animo di meraviglia e interesse di fronte al cambiamento e allo spirito che lo animava.

Quindi matrimoni, funerali, battesimi, sagre, manifestazioni politiche, sindacali, le gite e anche le vacanze dei loro concittadini i quali, per circa un ventennio, assunsero come elettive alcune località balneari e montane, per cui era facile individuarli ed estendere quindi il loro raggio d’azione, anche in ragione del fatto che in pochissimi avevano a disposizione una macchina fotografica e, pur avendola, particolarmente dalle verifiche dei risultati: immagini mosse o in controluce, teste tagliate, figure inclinate, erano indotti a non poche incertezze tecniche nell’usarla, per cui l’intervento di professionisti di fiducia era ben accetto. In quell’ordinata raccolta di fotogrammi, come e ancor più in evidenza rispetto alla vita stessa di cui, più che metafora, si fanno rappresentazione, serrati si alternano gli eventi e gli umori che li contraddistinguono ed è leggibile quella storia che non sta scritta da nessuna parte, perché frammentata e sfaccettata nell’intimo caduco individuale e in infiniti album o cassetti personali, difficile da ricostruire se non, appunto, attraverso la traccia suggerita da una raccolta completa.

Alle primissime battute di quell’esplorazione che mi appariva infinita, avevo provato incertezza nel leggere e interpretare le tante istantanee impresse su celluloide irrigidita e resa fragile dal tempo, avvolte in voluminose bobine. Il disagio dell’occhio si traduceva in un fastidio più generale che mal mi disponeva.

Fino a quando, casualmente, prevedibile seppure impensata, nella serie zeta, mi si è parata davanti una sequenza di fotogrammi in cui comparivo piccolissima assieme ai miei genitori. Due di questi negativi li avevo riconosciuti immediatamente aiutata dal fatto che i positivi erano e rimangono conservati nell’album familiare, ma gli altri, a suo tempo non selezionati dai miei genitori, apparentemente uguali eppure così diversi, erano lì a raccontarmi dettagli di un tempo di cui non potevo avere memoria. Si trattava senz’altro del preludio all’immagine tradizionale: tutti fermi, con lo sguardo e l’espressione sorridente verso l’obiettivo. Su quegli inediti mi soffermai moltissimo, specie sulla figura di mio padre del quale, ormai scomparso, non ho mai cessato di sentire, fortissimo, il rammarico di non potermici più confrontare, sovente anche battagliando, ma sempre con la certezza immediata o postuma che, quel misurarsi intransigente, sia pratico che ideale, era forse scomodo ma prezioso.

Con l’aiuto della lente d’ingrandimento ero entrata nei minimi dettagli e, cercando di interpretare gli umori, i sentimenti dalle espressioni e gesti fermati nelle immagini, avevo risvegliato una sequenza di ricordi e di elaborazione dei medesimi che poteva essere interminabile. La molteplicità e intensità dei ricordi si affollava, cercando scansioni temporali e, mitemente, quasi con meraviglia mi induceva alla consapevolezza del mio accumulato vissuto.

Mi capitava spesso di immergermi in retrospettive, ma quella era ineditamente la prima volta che mi rendevo consapevole di aver traghettato forse oltre la metà del tempo che ci è concesso. Non ho provato particolare turbamento, anzi, meraviglia nell’avvertire una sorta di appagamento rispetto ad un passato assimilato così intensamente da poterlo rileggere al bisogno, adottando chiavi interpretative insospettate, rintracciate nel trascorrere del tempo stesso, che, allora e ora, mi appare, nel suo alternativamente essere lieve o pesante, unico e straordinario.

Da quel momento l’approccio all’immagine è mutato profondamente. In breve ho imparato, più che a leggere, a tradurre il negativo in positivo e, forse, più precisamente, ad apprezzare il negativo in se stesso, con la sua vasta gamma di grigi trasparenti che rende tanto eterei figure e contesti da concedere un loro fantastico divenire: forse il negativo potrebbe essere assunto quale metafora e specchio dell’essenza della vita. Nella sua fissità, vivo oggi la stampa fotografica, anche la più eccellente, quale copia di un’opera che è pur sempre un surrogato rispetto all’idea che di essa la mia mente aveva elaborato. Il più delle volte, davanti al positivo mi accade di provare quell’insoddisfazione che prende dopo aver letto un romanzo poi tradotto in film, nel quale non ci si riconosce appieno, ritenendo sorvolati o appiattiti quei particolari su cui tanto diversamente ognuno si sofferma, elabora e assimila. Gradualmente si era fatto strada un concetto magico del negativo che andava oltre la consapevolezza che esso si costituisse tecnicamente come matrice originale ma, piuttosto, come impronta materiale degli uomini e della loro storia, catturate dall’obbiettivo, lì imprigionata priva o quasi di veli, senza l’artifizio della finzione, semmai carica di un portato simbolico più o meno consapevole e, volendo, pronta a riprendere forma e senso.

Mi pareva di riuscire a comprendere il senso del quasi pudico timore provato da molti, me compresa, nel farsi fotografare. Era senz’altro possibile il credere in uno sdoppiamento e, in esso, cogliere il possibile furto di un brandello di anima entro cui chiunque avrebbe potuto cercare di entrare. La foto come passaggio da uno stato di materialità ad immaterialità: sono, ero, non sarò più ma sono stato e lascio una concreta e fedele impronta a memoria. Questa l’intenzione celata nell’istantanea fino all’ultimo atto: la morte dove, la volontà di fermarne la rappresentazione è in chi rimane e appare un tentativo di esorcizzazione, teso a riappropriarsi di quel tempo lungo o breve che l’ha anticipata e, comunque, a carpire da essa ogni traccia rimasta della vita fino alla sua simulazione, spinta anche alla violazione di quella pietà immediata che conduce con una carezza a chiudere gli occhi a chi ha esalato l’ultimo respiro.

Ancora e sempre riemerge il racconto dell’anziano fotografo Umberto Becchi che nel descrivere la sua professione, si era particolarmente soffermato nel descrivermi i redditizi e irripetibili servizi fatti in occasione dei decessi, specialmente quelli improvvisi, dove in chi rimaneva si faceva imperioso il bisogno di un’immagine a memoria, cosicché, il defunto, abbigliato al meglio, veniva accomodato in posizione seduta, con gli occhi aperti e lui, ancora giovane assistente del padre, celato dietro al cadavere, aveva l’incarico di tenerlo saldo dietro la nuca, affinché non cadesse.

Corpi inermi, composti secondo l’uso, sul cui volto appare un’inespressione resa espressione drammatica dalla vitreità degli occhi sbarrati che non è più sguardo ma appare come stupore o tragica languida resa, fissati nella morte. Sono tracce sopravvissute e riemergenti nel negativo, meno efficacemente nei positivi, quasi certamente tenuti separati dalle altre immagini, anzi celati, utili a rinnovare in chi le ha volute quell’intensità di dolore entro cui ritrovare però l’ineffabilità di un affetto, inaspettatamente sublimato dalla morte, fino a quando, stingendosi, non vira ad un naturale oblio.

Nell’ordine dei negativi che segue la sequenza temporale di esecuzione delle istantanee, si alternano i vari umori e rappresentazioni della vita, mescolati in un vortice e in questa coralità pare di coglierne il senso perennemente contraddittorio: unicità ma anche generalità dei sentimenti, fugacità ma pure permanenza delle persone e degli eventi.

 

ORESTE, IL SAGRESTANO DI SAN NICOLÒ

In maniera archivistica, suddividendo per tematiche frequentemente ad intreccio, annotavo le collocazioni dei fotogrammi per rintracciare le immagini al bisogno quando, nel contesto di un battesimo, mi sono trovata di fronte una presenza che la memoria attuale aveva completamente obliato.

Un profilo maschile non estraneo, colto nell’atto di servire l’ufficio di un battesimo impartito dal Padre Guardiano di San Nicolò: era Oreste. Mi sono fermata, ho guardato alla lente d’ingrandimento quel particolare, ma già prima della certezza d’identità, nella mente era iniziato un recupero di una memoria accantonata che rinnovava a vortice concentrico e inarrestabile una sequenza velocissima, ma nitida di ricordi, sensazioni associate ad emozioni.

Una penombra fresca in estate e diaccia in inverno, un intenso odore di cera e il residuo degli effluvi inebrianti di incenso nella chiesa deserta dopo una cerimonia.

Un uomo curvo, vecchio forse non solo all’apparenza , dai tratti somatici strampalati, ampiamente stempiato, a volte con infilati due manicotti, altre con un grembiule nero stinto e cadente dalle cui tasche penzolava sempre qualche straccio per spolverare che si confondeva con un fazzolettone  estratto spesso per passarselo sul naso prominente, molto vicino alla bocca afflosciata e biascicante, dove sopravviveva malsicuro e intartarito qualche incisivo, che spuntava in occasione di una smorfia fatta per meglio mettere a fuoco le immagini.

Sul naso poggiava un paio di occhiali dalle lenti cerchiate che evidenziavano una forte miopia. Appariva sordo per via dell’espressione a naso arricciato e della postura protesa su un lato, assunta ogniqualvolta avvertiva il tonfo della porta, che chiudendosi, faceva rimbombare l’ampio spazio.

Si muoveva solerte intorno ai vari altari e lungo le navate laterali. Arrampicandosi sulla punta dei piedi per raggiungere i piani e gli interstizi più alti, spolverava l’altare centrale prima e dopo la Messa e, di tanto in tanto, scuoteva lo straccio provocando, all’interno del fascio di luce proveniente dagli alti finestroni, un fitto vortice di particelle polverose, a tratti iridescenti, che si fermava a guardare. Facendole debolmente tintinnare riordinava le ampolle del vino e il campanello usato durante la messa, ripiegava i teli dei funerali che poi andava a deporre in una cassa a fianco dell’altare. Spegneva le candele basse agli altari minori con la punta delle dita inumidite di saliva e recuperava la cera, borbottando sottovoce frasi incomprensibili. Camminando, strascicava i piedi e, quando non la usava, strascicava anche la scopa che si portava sempre dietro. Così che, se anche non lo vedevi, avvertivi la sua presenza e, da dietro una colonna, orientando gli occhi nella posizione di provenienza del fruscio, ti aspettavi di vederlo spuntare. Con lui inconsapevole, io giocavo a rimpiattino e il gioco continuava fino a quando, dopo un tempo apparentemente lungo, lui non mi individuava e, per qualche secondo, non si sa se sorpreso dalla mia presenza, si fermava per guardarmi con la testa di sbieco e l’usuale smorfia per poi, senza proferir parola, riprendere il suo giro.

Qualche volta l’eco dell’ampio spazio falsava la percezione del suo lieve rumore e, sobbalzando, me lo vedevo davanti all’improvviso.

Avevo appreso il suo nome dopo che, per più volte, avevo assistito a una scena che si ripeteva spesso, in cui un gruppo di bambini suonavano il campanello all’ingresso del convento e, in coro, al suo comparire, cadenzavano la rima: “Oreste, Oreste! Guastafeste!”.

A quel punto lui brandiva la scopa e richiudeva il portone che, per un po’ di tempo, non si sarebbe aperto per nessuno che avesse voluto entrare; i frequentatori abitudinari, per introdursi in modo alternativo, sapevano come farlo attraverso la chiesa. 

I LIBRI DI ORESTE E LE ALTRE BAMBINE

Ero tra i cinque e i sei anni di età ed ero alle mie prime sortite in quell’ambiente estraneo al mio costume familiare eppure pieno di fascino, che non mi era stato concesso di frequentare prima di una mia seppur limitata autonomia.

A fianco, sulla destra, una stanza bassa con scaffalature di legno alle pareti con allineati gli alti e strozzati vasi da fiori in vetro bianco, e viola azzurrino che venivano utilizzati per ornare gli altari. In un angolo, ammonticchiati stavano, vuoti, quei cesti dal lungo manico intrecciati a mano che avevo visto confezionare in un laboratorio nei pressi di Porta Barriera, quando ritornavo a casa dall’asilo per viale Nicolò Biondo e che si riempivano di fiori in occasione di matrimoni o battesimi.   

Al centro della stanza illuminata da una finestra bassa, che si affacciava su un cortile alberato, un bancone pure basso con sopra una incerata che mi venne di sollevare e che mi portò alla scoperta di una capace cassa di legno colma di volumi… tutti con una rilegatura in tela nera e, molto dissimilmente da quelli che erano nella libreria di casa mia, non portavano nessun titolo o immagine in copertina cosicché, per curiosità, mi trovai a sfogliarli e, in alcuni, trovai immagini accattivanti, perlopiù a colori.

Questa scoperta, assieme ad altre, mi fece ritornare spesso in quel luogo dove, ormai vista e tollerata da un Oreste sempre silenzioso, mi accovacciavo e, seppure con fatica, non solo mentalmente sillabando, come mi aveva insegnato la buona maestra Zora Scacchetti. Durante le mattine di quell’estate che anticipava il mio primo anno di elementari, tentavo di leggere brandelli di quelle pagine e, in particolare, avevo accantonato un volume che trattava di una vicenda amorosa, che, desumendo dalle immagini, doveva essere di stampo orientale. Da adulta mi sono ritrovata a pensare che si trattasse di romanzi messi all’indice e lì accantonati dai frati.

Dopo alcune sortite sempre in punta di piedi, solitarie e avvolte dal silenzio rotto ogni tanto da qualche passo frettoloso, mi capitò di trasalire al vociare allegro di un gruppo di bambine che passò dal corridoio poco distante al cortile.

Guardando dalla finestra scoprivo così dove si ritiravano le coetanee della mia contrada, quando mi era impossibile rintracciarle e, da lì, le spiai per molte volte fino a quando, proprio Oreste, mi prese per mano e mi accompagnò nel cortile insieme a loro. Era estate e un albero vicino alle altalene era carico di prugne piccole che poi, seppure assai alte, nei primi di settembre, riuscii a scoprire dolcissime.

La mia presenza comunque non era bene accettata, ero una non battezzata, quando i muri erano altissimi. Di lì a qualche giorno dal mio ingresso nel cortile, mi si avvicinò un frate, che le altre bambine allegramente vocianti circondarono immediatamente, chiedendo di essere spinte all’altalena. Il frate, giovane e robusto e anche di bell’aspetto, fece segno di far silenzio, e in modo cadenzato iniziò a interrogarmi: – Guarda, guarda che c’è una bambina nuova! Come ti chiami? Dove abiti? Di chi sei figlia? Cosa ci fai qui? Lo sanno i tuoi genitori che sei qui? –

Tutto d’un fiato, recuperando a stento la voce che inizialmente mi uscì rauca, risposi a quella raffica di interrogativi, lasciando in sospeso l’ultima domanda che, per la verità, da quel momento, iniziavo a pormi anch’io. Mio padre e mia madre erano al lavoro e io, da qualche tempo, per recarmi in quel luogo di cui a casa non avevo fatto parola, quasi fosse un mio segreto, arrischiando più o meno consapevolmente, mi sottraevo al controllo della nonna, che di tanto in tanto si affacciava alla finestra per assicurarsi della mia presenza. 

Quante volte mi aveva chiamato senza ricevere risposta? E se mi avesse cercata?

E quello che imparai essere Padre Benigno, incalzava: – Adesso noi dobbiamo andare dentro perché abbiamo cose più importanti da fare e lasciamo Luciana… Luciana vero?! – Sì – annui con la testa. – Lasciamo Luciana qui a giocare nel cortile. – Già, ma a giocare con chi? Si era fatto presto silenzio e io ero ritornata in quella specie di condizione di ombra in cui ero stata fino a quando, poco prima, il frate non era apparso e mi aveva rivolto la parola. Ero combattuta se andarmene o restare. Fu la prima volta che avvertii, assieme al disagio, anche un moto di risentimento.

IL CACO DEL FALEGNAME PRANDI

Svoltando a destra del portico della chiesa si era sotto l’altro portico e in due passi, si era alla bottega di Prandi il falegname nella cui vetrina, nel tardo autunno, generalmente sopra un tavolo appena restaurato, su un ampio vassoio, erano esposti gli splendidi cachi dell’albero cresciuto nel cortile della bottega. L’albero era attiguo al muro esterno della chiesa che gli faceva da confortevole riparo dalle correnti. Quell’immagine, oltre a rientrare in quell’ormai lungo repertorio che stavo mettendo insieme per riconoscere e scandire il tempo in stagioni, mi portava sempre a riprovare il sapore di quei frutti nella speranza di non sentirmi legare la lingua e soprattutto di non incappare in quelle sue parti interne compatte e viscide, che mi ricordavano la sensazione del contatto con la pelle delle anguille. Una sensazione che, se a fatica ero riuscita a vincere sulle mani, quando rovistavo tra il pescato di Diacci, mi era insopportabile riprovarla in bocca.
Quel maestoso albero di cachi ebbe a gelare nel terribile inverno tra il ’56 – ’57.

LE BOTTEGHE DEL PORTICO DI SAN NICOLÒ

Superata la falegnameria si arrivava all’osteria di Romildo Corradi, noto anche per essere stato un coraggioso partigiano, da dove, verso le cinque del pomeriggio usciva un intenso profumo di baccalà e gnocco fritto che copriva quello dell’olio di lino cotto, di spirito e mordente usato dai falegnami. Avevo chiesto il permesso di rovistare nel cestino sotto il bancone alla ricerca dei coperchietti con la stella San Pellegrino che erano i più ricercati e ne avevo fatto una buona scorta dato che riponevo la segreta speranza di poter qualche volta giocare con un gruppetto di maschi che avevo giudicato malleabili per via dei loro modi gentili:
Pietro e Arturo che avevo individuato quando la nonna mi portava al parco. Intanto mi ero ingraziata la moglie del gestore dal nome Regina, che sovente mi regalava la colla fritta del baccalà di cui ero ghiottissima.

Fu lì che vidi per la prima volta un televisore e, come mi era capitato di fare con la radio, d’impulso mi venne di andare a vedere dietro l’enorme cassone sospeso in alto su una grande mensola, pensando di individuare una truppa lillipuziana di giocolieri. Davanti a quella che appariva una magia, rimanevo a bocca aperta per un tempo indeterminato, senza quasi deglutire fino allo sbavezzo, che mi scuoteva e, dopo essermi guardata intorno per sincerarmi che nessuno mi avesse colto in quell’attimo terribile. Un momento che mi faceva vergognare e per il quale ero rimbrotta dalla mamma, che mi apostrofava con l’appellativo di acchiappamosche. Poi uscivo e mi soffermavo in quella sequenza di botteghe con laboratorio: Goldoni, Camurri e quindi il calzolaio Canulli, un signor calzolaio che non solo riparava calzature ma, su ordinazione, le faceva proprio completamente; nel suo laboratorio aveva più vetrine dove erano esposti i prodotti per la cura delle scarpe e del pellame in generale e ce n’era una particolarissima, dove permanentemente era allestito un presepe. La bottega che però mi catturava era quella del pagliaro Zucchi, attigua a Prandi.

Una batteria di macchine che estraevano le paglie, tagliandole da appositi segmenti di tronchi di legno di pioppo. La macchina emetteva un rumore ritmico e sempre uguale che io accompagnavo con il movimento del corpo da destra a sinistra, da sinistra a destra. Guardavo i veloci movimenti dei due uomini che acchiappavano i mazzi di paglie, le torcevano, le battevano, le legavano e accatastavano. Mi lasciavano raccogliere le paglie da terra e, istintivamente, cominciavo ad intrecciarle come avevo imparato a fare dalla nonna e, per avere le mani libere ne mettevo qualcuna in bocca e succhiavo il sapore dolce del pioppo tagliato di fresco e ne ascoltavo, inspirandolo, l’odore intenso.

 

ORESTE E L’ARMADIO DEI GIOCATTOLI
In uno di quei pomeriggi, la coda degli occhi abbassati sulla treccia, intravide avanzare i piedi calzanti sandali che dovevano essere di Oreste e, quasi contemporaneamente, il rumore inconfondibile dei suoi passi solerti e strascicati mi diede la quasi assoluta certezza di avere indovinato. Il suo passo era rallentato fino quasi a fermarsi a qualche metro di distanza da me che alzai lo sguardo per incontrare il suo. lo vidi, per così dire, in borghese dentro ad un paio di pantaloni grigi rigati, tanto corti che lasciavano scoperta tutta la magra caviglia e tanto larghi che la stretta della cintura consunta li arricciava in vita; un panciotto alla cui asola era assicurata una catena di un orologio tenuto nel taschino. Scoprii poi che l’orologio gli era indispensabile, in quanto, tra le tante mansioni, aveva anche quella di suonare persino i quarti d’ora con la campana.

Indossava una camicia bianca che la mamma, non so perché, avrebbe definito spietatamente di color “fu-fu”, dall’apertura di collo troppo larga per lui così magro. Pochi mutissimi secondi in cui percepii che entrambe pensavamo a quel gioco a rimpiattino che io avevo cominciato e a cui lui, forse senza rendersene veramente conto, aveva aderito.

Abbandonai paglie e treccia e lo seguii tenendomi a distanza e, prima di svoltare al portico del sagrato, lo vidi girarsi due volte e volli credere che lo facesse per sincerarsi della mia presenza. In quei pochi minuti, presa da quell’impulso che annullava l’inconsapevole determinazione di non ritornare in quel luogo, seppur poco credibile, perché era molto diverso dall’illustrazione in copertina del libro che mi facevo leggere dalla nonna. Provando un leggero brivido, pensai a Oreste come a un pifferaio magico in incognito.

Di lì a poco varcai nuovamente la porta della chiesa e fui nuovamente avvolta da quel silenzio tanto intenso e suscettibile che anche un respiro più forte del normale poteva rompere, facendo trasalire i rarissimi astanti.

Qualche volta, quando trovavo il coraggio, simulavo un colpo di tosse per verificare il fantastico amplificarsi del suono che, appena uscito, prima di allontanarsi, rientrava anche dall’epidermide per gonfiarsi nella testa, scendere nel petto, rientrare in gola facendomi vibrare all’unisono con lo spazio.

Mi ritrovavo poi, protesa sulla punta dei piedi, a guardare verso l’alto come per inseguirlo nel suo rimbalzare fino a scoprire in quale fessura delle alte pareti, presumibilmente, andava a rintanarsi. Da allora mi soffermo spesso a guardare le pareti di tutti gli edifici perché mi piace pensare che, chissà quando, si troverà il modo di riacchiappare tutti i suoni del mondo e, forse, più che dalle parole scritte, saranno interpretabili quei tanti brandelli di vita umana che, uniti, si faranno coro.

Non vedevo più Oreste, ma sapevo che lui era in fondo alla navata di destra, in prossimità dell’ingresso alla sagrestia, e lo sventagliare cigolante della porta, me lo confermò.  Quasi certamente anche lui mi aveva sentita entrare e sapeva che lo avrei seguito, tant’è che lo trovai nel corridoio vicino alla porta d’ingresso dove, sotto un Gesù crocefisso e grondante sangue, che mi metteva in forte soggezione tanto da indurmi a camminare in punta di piedi, c’era un alto armadio scuro, a cui Oreste aprì le due ante inferiori.

Era colmo di vecchi giocattoli tra cui risaltava in particolare una voluminosa locomotiva nera in latta. Senza proferir parola, portando il dito alla bocca mi fece segno di far silenzio e, con l’altra mano, mi invitò a sedermi accanto all’armadio per giocare. Tra lui e me si conservava sempre quella distanza che il gatto selvatico tiene con chi, pur con le migliori intenzioni, gli offre del cibo e, solo dopo che lui si era allontanato, pur seguendomi con lo sguardo che si incrociava con il mio e annuendo con la testa per confermare l’invito, mi decisi ad avvicinarmi ai giocattoli.

Ma, la sofferenza che trasudava da quell’immagine incombente che mi stava proprio sopra la testa e che non riuscivo ad ignorare, era così stridente con la spinta al gioco che riposi la locomotiva e adagio richiusi le ante dell’armadio. Mi chiedevo allora il senso dell’esposizione di tutto quel dolore: il Cristo morto nell’urna sotto l’altare laterale di destra, la Madonne trafitta dalle spade, i Santi martirizzati… forse Oreste non capiva e mi guardava scuotendo debolmente la testa come faceva la nonna quando voleva darmi della minchiona. Poi mi fece segno di fermarmi dov’ero: evidentemente stava portandosi in un luogo in cui non potevo seguirlo.

Imparai più tardi che quella era l’area ricreativa dei maschi, allora interdetta alle femmine e, da lì, forse, si poteva avere accesso alla cucina, in cui doveva aver riposto quella borsa fatta con ritagli di pelle che aveva in mano; quando ricomparve dentro al suo usuale grembiule, aveva la solita scopa da un lato e uno straccio dall’altro.

Lo seguii ancora nei suoi giri. Prima alla torre campanaria dove si attaccava alle corde delle campane e una volta lo vidi salire fin su in cima per battere le campane; poi mi mostrò i paramenti sacerdotali riposti negli armadi della sagrestia, mi fece infine entrare nell’ufficio del padre Guardiano, dove in una gabbietta era rinchiuso un canarino giallo che dal cortile avevo sentito spesso fischiare spesso.

In quell’ufficio mi fu poi concesso di ritornare altre tre volte per incontrarne il titolare e, diversamente da come avrebbe forse dovuto essere, uscivo da quegli incontri, per così dire, fuori e ben lontana dal cercare di entrare nella grazia di Dio.

Sempre con Oreste entrai nel teatro dove, oltre al palcoscenico, come nell’osteria di Romildo, venne poi messo un televisore per i parrocchiani.

Appresi così che le voci che di tanto in tanto interrompevano il silenzio dell’attiguo ripostiglio dei vasi, erano quelle delle prove delle rappresentazioni teatrali.

Stavo attentissima a non incrociare nessuno, specialmente padre Benigno di cui ogni tanto sentivo la voce e, quando arrivavano altre bambine, prima che raggiungessero il cortile, in fretta mi portavo nella stanzetta dei vasi di fiori per poi allontanarmi senza essere vista.

Quella era la tacita condizione che mi ero data per ritornare in quel luogo senza più dovermi vivere come un’ombra a disagio.

AL FRÉE SERCADÒOR

1970 circa: il buon Fra Giovanni Sossi (+1994) – conosciuto e amato frate cercatore del convento di San Nicolò di Carpi.

Oreste mi portò anche oltre il portone grande del cortile, dove ebbi a rivedere uno strano frate, che mi capitava spesso di incrociare lungo le strade intento a spingere, pedalando, un carro A triciclo che doveva essere assai pesante, perché si alzava dalla sella per imprimere maggior forza ad ogni pedalata.

La nonna lo chiamava il frate “cercone” e io lo avevo assomigliato, per via della sua triste espressione, al seppur più magro frate del dipinto del Cosmé Tura, la cui riproduzione era incollata, assieme a tante altre, in un paravento nel laboratorio dei miei genitori.

Anche di frate Giovanni che, pur tenendo ritmi lenti non si fermava mai, non ricordo di aver sentito la voce: era come assistere a un film muto dai toni virati, sì, perché, dopo le cinque del pomeriggio nel mese di settembre, i toni di luce si caricavano di grigio, il caldo si faceva fresco e si aveva la sensazione che anche i rumori suonassero diversi.

Allora il silenzio si materializzava in una fino a quel momento inavvertita solitudine che mi spaventava e, in fretta, mi allontanavo ormai senza più passare per la chiesa, ma per la porta del convento, via, attraverso il cortile delle lapidi in marmo con le incomprensibili scritte in latino, per sbucare sotto il portico del sagrato.

Il portico iniziava a popolarsi in quell’ora in cui i raggi del sole, a quel tempo privi di ostacolo, si infilavano obliqui nelle arcate del colonnato, ravvivando il rosso dei mattoni fino a dare la sensazione di una loro luce interna. Era questione di una manciata di magici minuti, l’ombra di allungava fino a piegarsi sul muro della chiesa e poi, d’un tratto spariva.

Di corsa raggiungevo l’altro lato del portico su via Berengario, cercando di scrollarmi di dosso la condizione di ombra fortemente improntata all’introspezione. Un tentativo che perlopiù rimaneva vano, era come dover conquistare una dimensione temporale e spaziale diversa e, questo, richiedeva un tempo imprecisato rotto spesso da una scarica adrenalinica sortita da un vigoroso richiamo di qualcuno dei miei familiari, che mi scrollava in modo deciso da una sorta di rimbambolimento

– Dove sei con la testa?! Sembri una bambola elettrica. Torna a casa che è ora- Questa la meno efficace traduzione italiana del ben più imperiosa e secca esortazione originalmente espressa in forma dialettale: – In du iit cun la tèssta?! T èmm pèer ‘na bambola elèetrica. Torna mò a cà, ch l’è óora! –

Riflettendoci adesso, mi rendo consapevole che conoscevo perfettamente due lingue: l’italiano con cui, salvo i rimproveri, normalmente si rivolgevano a me e il dialetto che gli adulti usavano tra loro. Capivo perfettamente la seconda anche se mi riusciva difficile usarla, tanto più che, quando ci provavo, il babbo mi riprendeva sempre, non perché fosse contrario all’uso del dialetto, ma, purista ed esigente com’era, deplorava che fosse rovinato nell’usarlo in maniera impropria.

Di Luciana Nora –Revisione ed editing di Mauro D’Orazi – dicembre 2019

Mauro D’Orazi
Esperto in Dialetto Carpigiano