Maternità Surrogata

Maternità Surrogata

Due gemelli a due padri, la storica sentenza della Corte d’Appello di Trento. Non si è dovuto attendere molto perché la sentenza n. 19599 del 30 settembre 2016 della prima sezione della

Suprema Corte di Cassazione iniziasse a illuminare il cammino della giurisprudenza in tema di trascrizione degli atti di nascita dei bambini delle famiglie omogenitoriali, le c.d. «famiglie arcobaleno». Il caso in epigrafe (Corte d’Appello di Trento 23 febbraio 2017) rappresenta infatti una delle prime applicazioni della predetta sentenza, la quale ha sancito che non possono considerarsi contrari all’ordine pubblico internazionale i certificati di nascita resi all’estero in relazione a bambini nati mediante ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita all’estero. Oggi questo principio viene esteso alla gestazione per altri o maternità surrogata, con una motivazione che ancora una volta dà conto dell’innegabile pluralismo familiare che ormai caratterizza anche il nostro Paese.

La sentenza della prima sezione della Corte Suprema di Cassazione del 30 settembre 2016, n. 19599 ha stabilito, sulla base di sei articolati principi di diritto, che la trascrizione di un atto di nascita formato all’estero con l’indicazione della doppia genitorialità femminile non è contraria all’ordine pubblico internazionale, non rilevando a tal fine né la tecnica utilizzata per portare a compimento il progretto procreativo, né la circostanza che i due genitori siano una coppia dello stesso sesso.

Con l’ordinanza resa lo scorso 23 febbraio 2017, anch’essa definita «di assoluta rilevanza» (Schillaci, Due padri, i loro figli: la Corte d’Appello di Trento riconosce, per la prima volta, il legame tra i figli e il padre non genetico, in Articolo29.it, 28.2.2017), la Corte d’Appello di Trento fa tesoro di quattro di questi principi, che applica a una fattispecie simile a quella già affrontata dalla Cassazione ma consistente, questa volta, nell’essere i genitori due uomini e nell’avere gli stessi fatto ricorso a una gestazione per altri o maternità surrogata (GPA) all’estero.

I fatti e il processo
I protagonisti della vicenda tridentina sono una coppia gay che ha deciso di realizzare il proprio progetto procreativo recandosi in uno Stato «ove coppie dello stesso genere non sono discriminate o comunque ostacolate nella loro aspirazione fondamentale di divenire genitori». In molti Paesi, infatti, la GPA è legale e disciplinata da leggi speciali che garantiscono da un lato la gratuità della prestazione della gestante e, dall’altro, il diritto di ripensamento di quest’ultima fino all’ultimo momento (per una riflessione comparata v. da ultimo i due articoli di Parizer-Krief e Lance e Merchant apparsi nel dossier Autour de la gestation pour autrui, in Les cahiers de la justice, 2016/2, 217 ss.).

Nel caso di specie, una donna aveva donato i propri ovociti, poi fecondati con il seme di uno dei genitori d’intenzione e successivamente impiantati nell’utero della gestante, resasi disponibile a portare a termine la gravidanza per conto della coppia. Alla nascita dei due gemelli, avvenuta nel 2009, una corte locale aveva ordinato al comune di nascita di trascrivere i relativi certificati con la menzione del genitore biologico come padre. Successivamente, il compagno di quest’ultimo aveva richiesto e ottenuto dalla stessa corte un provvedimento di cogenitorialità. I due padri chiedevano ora la trascrizione degli atti di nascita così formati presso il loro comune italiano di residenza, ma la loro richiesta era stata rigettata dall’ufficio dello stato civile sulla base dell’asserita contrarietà degli atti di nascita all’ordine pubblico internazionale sotto il profilo sia della loro formazione (quali “risultato” di un procedimento di GPA espressamente vietato in Italia) sia del loro contenuto, indicando due persone quali «padri».

Essi si rivolgevano allora alla Corte d’Appello, instaurando non un procedimento di impugnazione delle determinazioni dell’ufficio di stato civile ex art. 95, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento di stato civile), per il quale la Corte sarebbe stata incompetente, bensì un autonomo procedimento fondato sull’art. 67 della Legge 31.5.1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) in tema di riconoscimento ed esecuzione di provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione.

Nel processo interveniva poi il Ministero dell’Interno in veste di ufficiale di governo «a sostegno del più corretto esercizio degli adempimenti che la legge prevede in materia di stato civile» e dunque a supporto della decisione dell’ufficio.

Osservava al riguardo il Ministero che l’art. 1, comma 20, L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) «circoscrive l’applicazione alle unioni civili delle sole norme [del codice civile] espressamente richiamate, segnalando all’interprete che non si applicano ai rapporti familiari tra persone dello stesso sesso le norme sulla filiazione», salva la possibilità di ricorrere all’«adozione in casi particolari [ex art. 44, comma 1, lett. d), L. 4 maggio 1983, n. 184] ritenuta dalla giurisprudenza estensibile a persone unite in rapporto familiare omosessuale».Nelle parole del Ministero l’adozione in casi particolari «rappresenta, nel presente momento storico, l’equilibrio più avanzato raggiunto dall’ordinamento tra i vari orientamenti sociali e culturali».

Sotto il profilo procedurale, in via preliminare la Corte d’Appello tridentina ha correttamente rigettato la richiesta di intervento formulata dal Ministero, ritenendo da un lato che non si tratta di un procedimento che coinvolge il sindaco o riguarda la corretta tenuta dei registri di stato civile e, dall’altro, che «l’unico interesse pubblico che entra in gioco nella fattispecie, e cioè quello di evitare che trovino ingresso nel nostro ordinamento giuridico provvedimenti contrari all’ordine pubblico in materia di stato delle persone, è direttamente tutelato dall’intervento in giudizio del Procuratore Generale».

Una nozione perimetrata di ordine pubblico internazionale
«[P]er l’individuazione della nozione di ‘ordine pubblico’ questa Corte rimanda, condividendole, alle argomentazioni […] svolte dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 19599 del 2016». Così esordisce la motivazione della Corte d’Appello tridentina, che fa dunque proprio il primo principio di diritto affermato dalla Cassazione in merito alla definizione di ordine pubblico internazionale. Una definizione, questa, che oggi risulta perimetrata dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario e che deve perciò rinvenirsi unicamente nei «principi supremi e/o fondamentali della nostra carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario», ivi inclusi i principi di origine sovranazionale (CEDU, Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ecc.).

A tale riguardo va ricordato che la nozione di ordine pubblico internazionale va sempre declinata con riferimento agli «effetti» della legge straniera altrimenti applicabile, legge che in questo caso è quella del luogo di nascita, vigendo nel Paese in questione lo ius soli. È tale legge che sancisce, come abbiamo accennato, non solo la liceità della GPA ma altresì la doppia genitorialità maschile nei certificati di nascita. Deve pertanto escludersi che l’espresso divieto di GPA vigente nel nostro Paese (art. 12, comma 6, L. 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in tema di procreazione medicalmente assistita) e il mancato riconoscimento dell’omogenitorialità a livello legislativo possano fondare un’eccezione di ordine pubblico nel senso reso esplicito dalla Cassazione.

Diritto alla continuità transfrontaliera dello status e interesse del minore
Il secondo e il terzo principio di diritto enunciati dalla Suprema Corte e applicati dai giudici tridentini concernono il diritto del minore alla continuità transfrontaliera dello status formato all’estero e il «preminente» interesse (best interest) del bambino, che insieme giustificano la continuità affettiva con la famiglia che già se ne prende cura.
Nelle parole della Corte d’Appello tali diritti si sovrappongono al diritto fondamentale del bambino all’identità personale, che include la filiazione e la cittadinanza, come stabilito in più occasioni dalla Corte EDU (CEDU sent. 26/06/2014, ric. n. 65192/11 e 65941/11, Mennesson c. Francia, paragrafi 96-101,e Labassee c. Francia, paragrafi 75-80, in Foro it., 2014, IV, 561, nota Casaburi, nonché sent. 27 maggio 2015, ric. n. 25358, Paradiso e Campanelli c. Italia, paragrafo 71 ss., in Foro it., 2015, IV, 117, nota Casaburi, che definiscono tale diritto «d’importanza primordiale»). Si legge così nell’ordinanza che «il mancato riconoscimento dello status filiationis nei confronti del [secondo genitore] determinerebbe […] un evidente pregiudizio per i minori, i quali non vedrebbero riconosciuti in Italia nei confronti [di detto genitore] tutti i diritti che a tale status conseguono», con corrispettiva assenza di obblighi da parte di quest’ultimo.

Non sussistono al riguardo «altri interessi o valori di rilevanza costituzionale primaria e vincolanti per il legislatore ordinario» che possono essere fatti valere per opporsi al preminente interesse del bambino.
Lo spettro della gestazione per altri
Attraverso il quarto principio di diritto enucleato dalla Cassazione – che nella fattispecie considerata dalla Suprema Corte, si badi, riguardava un’ipotesi non di gestazione per altri bensì di fecondazione eterologa parziale realizzatasi interamente all’interno di una coppia di donne –, i giudici tridentini si domandano se il ricorso alla GPA all’estero possa costituire un ostacolo al riconoscimento.

Qui è stato inevitabile il riferimento alla recente pronuncia della Corte EDU nel caso Paradiso e Campanelli v. Italia, decisa in secondo grado dalla Grande Camera il 27 gennaio 2017, che ha ribaltato il precedente giudizio di condanna espresso due anni prima (sent. 25 gennaio 2015, cit. supra, sulla quale v. Winkler, Senza identità: il caso Paradiso e Campanelli c. Italia, in GenIUS, 2015/1, 243). La Corte di Strasburgo ha concluso nel senso dell’esistenza, in capo agli Stati contraenti della CEDU, di un ampio margine di apprezzamento in relazione alla misura dell’allontanamento di un bambino nato da GPA all’estero e privo di legami genetici con i genitori d’intenzione unicamente in considerazione del breve tempo trascorso dal bambino con i genitori d’intenzione (otto mesi, di cui sei in Italia), come tale ritenuto inidoneo al consolidamento di un sufficiente vincolo familiare e dunque alla costituzione di una famiglia di fatto nel senso di cui all’art. 8 della CEDU (ibid., paragrafi 153-158).

Proprio la peculiarità del caso e la specificità delle conclusioni raggiunte dalla Corte EDU impediscono l’applicazione di tale precedente al caso di specie, e al contempo confermano la correttezza della conclusione dei giudici tridentini che, a contrario, valorizza la solidità del legame genetico con almeno un genitore e da un consolidato e lo stabile rapporto di genitorialità prolungatosi per oltre sei anni.

Conclusioni
L’ultimo aspetto sottolineato dai giudici tridentini è occasione per far luce su un aspetto importante di «litigation strategy».
Si ricorderà a tal proposito che nel proprio intervento il Ministero dell’Interno aveva argomentato contro il riconoscimento del legame estero in considerazione della possibilità, per il secondo genitore, di ricorrere all’adozione in casi particolari (cfr. Cass. civ. sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962). Qui la Corte d’Appello ritiene «sufficiente osservare, a prescindere da altre considerazioni, che non è così incontestabile, come invece preteso, la possibilità di fare ricorso a tale tipo di adozione da parte di coppie omosessuali, trattandosi di interpretazione giurisprudenziale della normativa che ha dato luogo a contrastanti pronunce» (v. in effetti Trib. min. Milano 17 ottobre 2016 e Trib. min. Torino 9 e 11 settembre 2015, queste ultime in NGCC, 2016, 205, nota Nocco, e riformate in appello da App. Torino 27 maggio 2016).

Merita inoltre di ricordarsi che l’adozione in casi particolari, in quanto «adozione mite» (come definita da Cavallo, Si fa presto a dire famiglia, Roma-Bari, 2016, 37), non comporta gli stessi effetti del riconoscimento di un provvedimento straniero di volontaria giurisdizione non introducendo, al contrario del secondo, «alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato né tra l’adottato e i parenti dell’adottante» (art. 300, comma 2, c.c.). Sebbene a parere di chi scrive questa norma debba considerarsi ormai abrogata per effetto della riforma della filiazione e della costituzione dello «stato unico di figlio», deve ritenersi ad oggi definitivamente più efficace, in assenza di chiare statuizioni giurisprudenziali sulla vigenza attuale del predetto limite parentale e proprio in relazione ai precedenti qui citati, chiedere il riconoscimento del certificato di nascita estero piuttosto che ricorrere all’adozione in casi particolari.

Nell’insieme la Corte d’Appello di Trento conferma, come già aveva scritto la Cassazione, che anche nel nostro Paese ormai «la famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti, incentrata sui rapporti concreti che si instaurano tra i suoi componenti: al diritto spetta di tutelare proprio tali rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di contemperare gli interessi eventualmente in conflitto, avendo sempre come riferimento, ove ricorra, il prevalente interesse dei minori».
Né le modalità con cui un bambino è venuto al mondo né l’orientamento sessuale dei genitori che l’hanno accolto possono costituire impedimenti al riconoscimento del legame familiare creato all’estero.
Corte d’Appello di Trento, ordinanza 23 febbraio 2017. A cura della Redazione Wolters Kluwer, Quotidiano Giuridico.

Avvocato Francesco Murru
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