30 Ott Maestra d’Asilo Violenta
IL CASO: Perché è maltrattamento in famiglia e non abuso di mezzi di correzione. Gli atti di violenza esercitati da un’insegnante di scuola materna nei confronti di infanti di tre anni devono essere qualificati come delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e non come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.), atteso peraltro che le dichiarazioni dei bimbi, per quanto da valutarsi con particolare attenzione, non possono ritenersi aprioristicamente inaffidabili.
Il caso
L’imputata, insegnante presso una scuola materna, viene condannata in primo grado per maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) per specifici e reiterati atti di sopraffazione, anche violenti, posti in essere nei confronti degli infanti a lei affidati. La Corte di appello ha confermato la condanna, ma qualificando il fatto come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.) e rideterminando la pena in mesi quattro di reclusione con la conseguente sanzione accessoria di interdizione dai pubblici uffici di pari durata.
Il difensore ricorre per Cassazione lamentando, fra l’altro, come l’accusa si sia basata sulle dichiarazioni provenienti da bimbi di tre anni d’età senza alcun riscontro.
La Suprema Corte respinge il ricorso, ma qualifica nuovamente il fatto come maltrattamenti e non come abuso dei mezzi di correzione.
Le dichiarazioni degli infanti
Sul punto la Corte afferma che non può sostenersi la preconcetta inaffidabilità delle dichiarazioni dei bambini in tenera età (nello stesso senso: Cass. pen. Sez. III, 30 settembre 2014, n. 45920), vero semmai che esse impongono un vaglio particolarmente attento e circostanziato (cfr. Cass. pen. Sez. III, 6 ottobre 2011, n. 12283): il che nella fattispecie non era proprio mancato. Da un lato le dichiarazioni dei bimbi erano state raccolte anche assieme alla puntigliosa disamina delle deposizioni dei genitori degli stessi, ed in assenza di elementi atti a farne dubitare la credibilità.
D’altro lato, sintomatico il disagio da questi evidenziato durante le lezioni dell’imputata e subito scomparso in sua assenza. Infine, molto chiaro tale riferimento effettuato tramite i giochi, in cui, come è fin troppo noto, il minore trasferisce i propri vissuti traumatici o non proprio positivi al fine di elaborarli e comunicarli.
La diversa qualificazione giuridica
La Corte, prima di dare al fatto una diversa qualificazione giuridica rispetto a quella del giudice del gravame, afferma che tale possibilità, sancita dall’art. 521 c.p.p. in ordine alla correlazione fra accusa e sentenza, deve rispettare i princìpi del contraddittorio anche ai sensi dell’art. 6 della C.E.D.U., come interpretato dalla Corte di Strasburgo e, prima ancora, dall’art. 111 della Costituzione (Cass. pen. Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617; Cass. pen. Sez. II, 24 ottobre 2014, n. 46786; Cass. pen. Sez. V, 6 giugno 2014, n. 48677).
L’importante è che tale difforme inquadramento giuridico non avvenga “a sorpresa”, ma in modo che la diversa qualificazione giuridica del fatto possa apparire come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, ove l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio del gravame (così anche Cass. pen. Sez. V, 24 settembre 2012, n. 7984; Cass. pen. Sez. III, 14 giugno 2011, n. 36817; Cass. pen. Sez. Un., 15 luglio 2010, n. 36551; Cass. pen. Sez. VI, 19 febbraio 2010, n. 20500; Cass. pen. Sez. I, 18 febbraio 2010, n. 9091; Cass. pen. Sez. II, 16 settembre 2008, n. 38889).
Maltrattamenti e non abuso dei mezzi di correzione
Ciò premesso, sulla base dei fatti ritenuti nella decisione di merito, la Corte ritiene di qualificarli come delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), come aveva fatto il giudice di prime cure, e non come abuso dei mezzi di correzione e disciplina, alla stregua della sentenza della Corte d’Appello (art. 571 c.p.).
Da tempo la giurisprudenza si interroga sui rapporti o, rectius, sulla linea di discrimine fra le due fattispecie criminose, prescindendo dal fatto che, come è noto, quello di maltrattamenti in famiglia è un reato necessariamente abituale.
Tale linea va riscontrata sul piano oggettivo e non già dall’intenzione dell’agente: come dire che l’animus corrigendi non è idoneo a far rientrare nella meno grave fattispecie di abuso una condotta di maltrattamenti (ex plurimis: Cass. pen. Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 30436; Cass. pen. Sez. VI, 10 maggio 2012, n. 36564).
Invero, è la visione stessa dell’”abuso dei mezzi di correzione e disciplina” che è venuta a modificarsi e ad evolversi nel tempo, per cui, anche nel contesto del riformato diritto famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), è emersa sempre più l’esigenza di bandire la violenza come mezzo correzionale, passando, quasi per gradi, ad ammettere prima solo la vis modica, poi quella modicissima, e, infine, per escluderla del tutto. Infatti, anche in riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991, n. 176, la Corte di Cassazione ebbe ad affermare nitidamente, in una basilare decisione, cui la sentenza in commento fa ampio riferimento, che “con riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo.
In ogni caso non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti, sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza, utilizzando il mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso dei mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 cod. pen. (abuso dei mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso” (così Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904; nello stesso senso: Cass. pen. Sez VI, 22 ottobre 2014, n. 53425; Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45647).
Una giurisprudenza proprio non lineare
Invero, la richiamata, fondamentale sentenza della Sez. VI, n. 4904/1996, a nostro avviso (Pittaro, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione: una fattispecie “senza più fondamento”?, in Famiglia e diritto, 1996, p. 324 ss.) avrebbe potuto portare ad uno “svuotamento” della fattispecie dell’art. 571 c.p. in presenza di una sia pur minima violenza, anche psichica (con il relativo inquadramento sotto altre norme incriminatrici).
Peraltro, così non è proprio stato, in quanto si è anche continuato ad affermare che integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricorso a qualsiasi forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi (Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954; nello stesso senso, in riferimento ad atti dell’insegnante che violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute: Cass. pen. Sez. V, 16 luglio 2015, n. 47547; Cass. pen. Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 34492).
Maltrattamenti rivolti ad una comunità
Alla diversa qualificazione giuridica operata dalla pronuncia in commento non può ostare il dato, tratta dalla sentenza oggetto del ricorso, circa il carattere non ripetitivo, sistematico ed abitudinario delle condotte di sopraffazione. Al contrario, la Corte rileva che dagli atti risulta la presenza di violenze fisiche e morali ripetute, connotate da abitualità a danno di minori affidati all’imputata per ragioni di educazione, e viene ad affermare che tale abitualità non deve essere valutata alla stregua del limitato numero di violenze cui ciascun bambino, isolatamente considerato è stato oggetto, poiché ciascuna di queste azioni costituisce un piccolo segmento della serie che, considerata nel suo complesso, integra la condotta descritta dalla norma incriminatrice.
Illuminante la conclusione della Corte: le angherie e le violenze consumate in danno del singolo individuo si ripercuotono necessariamente anche nei confronti dei componenti della stessa comunità, affidata all’imputata per ragioni di educazione ed istruzione, generando quello stato di disagio psicologico e morale, a sua volta causativo di una condizione di abituale e persistente sofferenza, riscontrabile negli atti, la quale costituisce l’in sé della nozione di maltrattamenti e che il minore non ha alcuna possibilità, né materiale, né morale di risolvere da solo.
Conclusione
L’aver ripristinato l’originale qualificazione ai sensi dell’art. 582 c.p., e pur considerando che la pena edittale ex art. 581 c.p. è inferiore rispetto a quella prevista per il delitto di maltrattamenti, e preso atto che l’appello era della sola imputata e non anche della parte pubblica, il noto principio processuale (art. 597, comma 3, c.p.p.) impedisce alla Corte di Cassazione di formulare l’annullo con rinvio al fine di modificare il quantum della pena.
Donde, qualificato il fatto ai sensi dell’art. 582 c.p., il rigetto del ricorso.
A cura della Redazione Wolters Kluwer, Cassazione penale, sezione VI, sentenza 13 marzo 2017, n. 11956
Avvocato Francesco Murru
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