La Néev

La Néev

Gentile revisione di Giliola Pivetti e di Graziano Malagoli. Premessa: la parola “neve” in dialetto si dice la néev, ma io ho sempre sentito anche la variante la néeva. Probabilmente “dentro alle

mura” si usa la prima, mentre nel dialetto arioso, in particolare nelle frazioni a nord di Carpi, la seconda versione.

Il nuovo Dizionario di Dialetto Carpigiano di Malagoli e Ori sceglie solo il primo termine.
Mentre per il verbo “nevicare”, sempre il dizionario stavolta accredita due possibilità: anvèer e nvèer.
Come al solito nessun dramma, nessuna lesa maestà! Vale sempre l’avvertenza aurea che in campo dialettale è bene che ognuno usi la sua versione familiare e la sua tradizione culturale: sono gli unici parametri che contano davvero.

La società moderna e nevrotica non tollera la neve, che intralcia i normali impegni quotidiani. Ma contro le forze della natura bisogna inchinarsi e fèer s èn ’na ragiòun (farsene una ragione). Quàand a néeva, a néeva, a n gh è né Crisst, né Madònni ch a tèggna. Nonostante ciò il carpigiano medio vorrebbe che dopo 10 minuti dall’inizio della nevicata, solerti squadre comunali, conservate in frigo undici mesi l’anno e sempre pronte alla bisogna, avessero già provveduto, con la “puiàana da néev”, alla pulizia di tutte le strade, ma in particolare quelle davanti a casa propria.
Il termine prende ovviamente origine da “poiana” che è un uccello rapace, considerato uno spazzino, perché si nutre di carogne e in più ha una postura alare simile alla benna degli automezzi di soccorso e pulizia delle strade (cioè a V) che, in casi di nevicate forti, si monta davanti. Da questo fatto lo spartineve nel tempo è diventato la “puiàana”.
Recentemente, grazie alle risorse risparmiate con le riforme dell’ex ministro Brunetta, la task force municipale antineve è stata dotata di appositi phon per sciogliere l’incomoda materia bianca; pare che l’unico problema stia nella non adeguata lunghezza del filo elettrico necessario.
In ogni caso la caduta della neve è da sempre un argomento di grande conversazione, un evento che costringe a cambiare le abitudini quotidiane e fa sentire strane sensazioni: A m sèint la néev ṡò pèr la schiina. A gh ò di faat ṡgriṡóor! (Mi sento la neve giù per la schiena. Ho dei tali brividi!).
Puntualmente il nostro dialetto registra questo fenomeno meteorologico come al solito in modo ampio, saggio e arguto
La neve sarà anche bella, ma provoca un bel po’ di inconvenienti e mia madre dice sempre, con infastidita rassegnazione: A peèra ch la m vèggna tutta in tèesta = sembra che mi venga tutta in testa.
Immancabilmente, al cadere dei primi fiocchi, qualcuno in famiglia o nel condominio dirà:”Óo .. a gh è da fèer la ròtta!”(c’è da fare la rotta!)
Ma qualcuno prontamente risponderà con doppi sensi ironici:
“A nn avéer pasiòun, i gnaràan pò chi ragàas èd Lùi”o “chi ragàas d Agòsst”.
(Stai tranquillo, verranno poi i ragazzi delle famiglie dei Lugli o degli Agosti).
Naturalmente però con riferimento ai mesi estivi, quando la neve si sarà già sciolta da un bel po’.

Ma ecco varie frasi che tutti abbiamo sentito.
Quando la luce del giorno ha uno strano grigiore e c’è una luminosità particolare, chi è più sensibile dirà: “ Chè a gh è ’n’aaria da néev!” (c’è un’aria da neve).
Quàand la néev la caasca èd còo da la fóoia a viin ’n invèeren ch al fa vóoia = Quando la neve cade dalla foglia viene un inverno che fa voglia; o con maggior precisione quando comincia a nevicare molto presto, con ancora le foglie sulle piante, si prospetta un inverno bello tosto.
invece … La cosiddetta pioggia a frega-villano; infatti si dice che …”l’è l’aaqua fiina ch la baagna al vilàan”.
La nèev la s a arvuia, quando comincia a turbinare … la mulinèela, la mulèina, la mèina.
Franco Bizzoccoli mi ricorda che quàand la néev la se ṡmarèina (la neve se ne va), lascia sulla strada una fanghiglia marroncina, frammista a neve mezza sciolta, sale e sporcizia varia. Questa poltiglia prende il nome di paciaréina … e se per caso poi ghiaccia sono guai seri per chi ci cammina sopra e per la circolazione.
La néev patòoca è la neve disfatta, marcia, in disfacimento.

Il problema è che tutti, cominciando dal Galvani, si è sempre tradotto patòoch in appoggio ad un altro aggettivo, cioè con: completamente, completo, apertamente, verace, evidente. Non si riesce a capire come da questo gruppo di significati (derivati dal lat. patefacio = aperto, evidente) si sia poi arrivati a marcio, melmoso e simili.
Giorgio Rinaldi, studioso modenese dei nostri dialetti, ci suggerisce questa possibile origine e derivazione:
“Il fenomeno, presente in tutte le lingue, si chiama “slittamento semantico”, in parole povere patòoch nel venire usato per consuetudine unitamente a marcio, più che ad altre parole, in molte zone dell’Italia settentrionale, ne ha assorbito il valore.
Come ancor oggi, ad es. a Trieste, “Triestìn patòco” significa Triestino evidente, verace, oppure nel Frignano si usa ancora surd patòoch, sordo completo, da noi invece (ma anche in tante altre parti) patòoch ha assunto il significato di marcio, anche da solo, anche come sostantivo. Una cosa del genere accadde in italiano con la parola CATTIVO. Questo termine un tempo significava prigioniero, ma a forza di essere usato nell’espressione captivus diaboli (= prigioniero del diavolo) ha assunto il significato di diabolico, poi di malvagio, soppiantando “diavolo”. Dal lat. captivus (= prigioniero) sono però rimasti in italiano i termini cattività, cattura, catturare ecc.

È provabilissimo che patòoch derivi da patefacio, ma qui bisogna notare un’altra cosa interessantissima: patefacio significa anche aprire, sia in senso metaforico, cioè mostrare alla vista, all’intendimento, ma anche aprire in senso materiale, cioè aprire/aprirsi di un frutto, perché eccessivamente maturo.
La prof Anna Maria Ori a sua volta si dichiara d’accordo su tutta la linea, che appare assolutamente logica e credibile. Probabilmente, per patòoch, non c’entra patefacio (dov’è finita la seconda parte del composto?), ma solo la radice *pat-, che è una radice indoeuropea (se si dice ancora così). Essa indica estensione apertura visibilità, quindi propende per l’ipotesi prospettata alla fine del parere di Rinaldi, in assenza di documentazione scritta che illustri le modalità del percorso semantico, cioè “così maturo che si spacca da solo, che mostra il suo interno…”

Lo scrittore Carlo Alberto Parmeggiani aggiunge, per averlo sentito dire da un amica di Montebelluna, il termine patòoch può forse derivare forse dalla parlata veneziana, ovvero da “patoco”; una contrazione tipicamente veneta di “toco par toco” (tocco per tocco), ossia sdrucito, cucito alla buona, mal messo in arnese, così come da noi si dice patòoch di un caco troppo maturo, molle e fessurato nel tegumento che ne racchiude la polpa. Per non dire poi del termine “pataaca”, all’emiliana, la cui fessura lascia intravedere il tabernacolo e la polpa di un frutto celestiale, che … il sapor non sa chi non lo prova …

Una piccola sezione di detti può essere dedicata alla caduta della neve e in particolare alla quantità del candido precipitato.
È gnuu un cuul d néev = una bella e abbondante nevicata che quasi raggiunge il culetto di coloro che commentano.
Con lo stesso significato: A n è gnuu un castìigh! = Ne è venuta un castigo di Dio. E considerata la qualità del mittente, l’entità della precipitazione è stata certamente molto abbondante.
La viin ṡò sutiila sutiila ch a n in viin un cuul! Viene giù sottile sottile che ne cadrà fino all’altezza del culo.
Altra bella frase è .. “A gh in viin ‘na gaamba”. Era ovviamente è riferita alla neve, ma si adatta anche a situazioni che volgono pesantemente al peggio, come per certi film western o di gangster, dove l’inizio della scena madre, prelude a caterve di morti ammazzati.
Accanto alle note frasi sopra riportate, per meglio significare una consistente nevicata, venivano simpaticamente citati, in discorsi familiari, nomi di persone reali, molto alte e con gambe molto lunghe.
Ecco alcuni esempi che mi sono stati riferiti.
A Chèerp si poteva dire … “A n è gnuu un cuul èd Sandro Cavasòun!” … certamente si trattava di un signore molto alto, dotato di gambe di dimensioni ragguardevoli.
A Campgaiàan (Campogalliano) … ” A gh in viin un cuul èd Redighiéeri!”… con riferimento a tale Egidio Redighieri (tutt’ora in vita), una persona di rilevante statura.
Mentre a Limmid (o Limmed in pronuncia locale) e a Buderiòun si usava un’altezza più contenuta, ma con riferimento a un “oggetto” probabilmente di ben consistenti e massicce dimensioni … “A gh in viin un cuul dla Teresiina !” èd sicùur la srà stèeda un dunlòun d éelta statura.
Quando la neve ghiacciava i ragazzi trovavano il modo di divertirsi con lunghe scivolate sul ghiaccio. Questo gioco prendeva il nome di lingaata o di bliṡṡga, a seconda della zone di Carpi. Da un rapido sondaggio, risulta che in Piazzetta, in via Nova, in Via De Amicis, in via Aldrovandi, in Viale Nicolò Biondo, a Cibeno si usava il primo termine, a Budrione, a Gargallo, a Fòosa Nóova il secondo.
Un posto molto adatto per questa specialità era la Piazzetta. Infatti all’esterno del portico a est, allora c’era un percorso pari in cemento e sotto passa il canale di Carpi; ciò portava alla sovrastante formazione di una consistente e duratura lastra di ghiaccio.
I ragazzi con più inventiva buttavano di nascosto di sera dei secchi di acqua nei posti su tale striscia col fondo ben livella, per avere, la mattina, una pista da scivolo fantastica; si trovano in venti o trenta per prendere la rincorsa e fare la scivolata bisognava mettersi in fila. Chi aveva gli scarponi chiodati veniva escluso per non rovinare la pista. Bisognava stare attenti, perché a s ciapèeva dal bèeli culèedi pèr tèera (era facile cadere pesantemente sul sedere).

Carlo Lodi invece ricorda che a Buderiòun, indu a gh éera la Valtrèina (Valterina), quàand i ragàas i andèeven a scóola, i s fermèeven al Budghìin (Botteghino) a fèer la blèṡṡga (mìa bliṡṡga).
Quasi tutti i ragazzi si dedicavano poi alla costruzione di pupàas èd néev.
Anche al ṡbalèedi d néev sono sempre state un gioco molto apprezzato fra i ragazzi, che si affrontavano senza risparmio fra gli amici o fra bande avversario; qualcuno, un po’ più criminale, metteva anche un sasso all’interno della neve schiacciata per appesantire il proiettile ghiacciato.

A metà del secolo scorso era poi molto in voga una prova, quasi olimpionica, di abilità e di forza dei ragazzi: si trattava di colpire con palle di neve il quadrante (rotondo) dell’orologio del castello in Piazza. Si prendeva la rincorsa dal Voltone della Catena e poi di lanciava con tutta la forza possibile. Il paff contro la lontana parete sanciva il tiro vittorioso, che lasciava un’evidente traccia sul quadrante. Solo i ragazzi più forti riuscivano nell’impresa. Un inconveniente era l’eventuale passaggio di un vigile, pertanto veniva messa un’apposita vedetta per segnalare con maggior anticipo possibile la visita non gradita.

Molto simpatica è la frase: Bliṡṡga e po’ caasca che in senso letterale significa scivola e poi cadi, ma il cui vero senso è nel definire una cosa, una vicenda, un’azione e fin anche una persona la cui affidabilità, autorità, punto di riferimento, di protezione, di sicurezza sono assolutamente inesistenti. Al còunta bliṡṡga e po’ casca.
Interessante è anche l’uso di bliṡṡga per indicare una cosa che è diventata … leggermente di più di una misura intera e precisa. Déeṡ dè e bliṡṡga … significa dieci giorni e qualche ora in più o addirittura un giorno o due; un’eccedenza che, scivolosa per sua natura, non è meglio definibile, ma che sarà ben presente in un certo contesto.

Ecco un commuovente ricordo di Marco Giovanardi, che unisce alla spalatura una dimensione mistico – spirituale: Catèeres a la matèina prèesti a fèer la ròtta, ind al silèinsi atutìi da la néev. L è belissim, al t distènnd i nèerev e al t mètt in pèeṡ còn tè stèss!!! Mò a póol sucéeder èd sintìir tirèer dal brisscoli dimònndi culuriidi a tutta caana e a l improvìiṡ a se ṡmòunta tutt l incàant. Un mècco, ’n imbambìi, èd fiàanch a mè, …ch l iiva ṡbadilèe un bèel pòo pèr liberèer la sò màachina … a la fiin al s è adèe che l’aaVto puliida la nn éera briiṡa la sua !!!
Per evitare che la neve ghiacci incóo a s dróova al sèel (oggi si usa il sale) che è efficace fino a 4 gradi sotto zero; ma questa pratica rovina le strade, il fondo delle auto e può portare a seccare le piante.

Una volta si usava invece il lòcch (la pula del riso) oppure la bulla (la segatura); questi materiali di risulta avevano il vantaggio di essere a buon mercato e di non rovinare nulla. Infaati al sèel al custèeva dimònndi. Quàanti vòolti a iò sintìi diir in ca mìa: “Raang èt mò ragasóol, acsé te impèer ’sa còssta al sèel!”
In tanti ricordano la famosa nevicata del ’29, per averla vissuta o sentita raccontare mille volte.

La voglio anche io ricordare con questa foto simbolica di un anziano carpigiano in berretta e tabarro, circondato dalla neve.
Ecco poi alcuni modi di dire e proverbi.
Anni fa c’erano delle stagioni più ordinate e costanti e per i primi di novembre si poteva dire: pèr i mòort, la néev ind l òort (Per i morti la neve nell’orto). Mò al dè d incóo a n s capìss più gniinta. Ma al giorno d’oggi non si capisce più niente.

Laasa ch a néeva. Lascia pur che nevichi, nel senso lascia pure che le cose vadano come devono andare.
Quàand a s giira cun la néev (quando si gira con la neve) bisogna stare attenti a quella sugli alberi: uscito di casa … la m à impìi al cupètt … un gusst !! (mi ha riempito il coppetto con sommo compiacimento).

La fumaana la maagna la néev = la nebbia mangia la neve; nel senso che con la nebbia di solito la temperatura va sopra zero.
Néev ch la s féerma in simma a la piàanta, la n in ciàama ancòrra taanta (neve che si ferma sopra la pianta, ne chiama ancora tanta). Non c’è pezza: nevicherà ancora.
Chi la fa sòtt a la néev, al sòol al la descuàacia (chi la fa sotto la neve, presto il sole la scoprirà), nel senso che una mala azione anche fatta di nascosto verrà presto scoperta.
Di analogo significato … Chi la fa sòtt a la néev, un dè la s truvarà, cioè chi compie atti riprovevoli prima o poi verrà scoperto, letteralmente chi la fa sotto la neve, un giorno la si ritroverà e non potrà farla franca.

A caghèer sòot a la néev, la se scuàacia! Le bugie, prima o poi, saltano fuori e si scoprono miseramente!
A fa taante bèin la néev al graan, che a un vèec’ al sò pastraan (fa tanto bene la neve al grano, così come alla persona anziana il suo mantello da inverno. Sempre per sottolineare che la neve protegge il grano che deve crescere, abbiamo: sòtt a l’aaqua … faam, sòtt a la néev … paan (sotto l’acqua fame, sotto la neve pane).
Sempre con lo stesso significato: Aan da néev, aan da sgnóor (un anno con molta neve in campagna, sarà un anno da signori con molta produzione). Ancora: In ṡnèer, tèera biàanca la fa bòun paan, tèera néegra gnaanch un graan. In gennaio la terra innevata farà del buon pane, la terra nera neanche un chicco.
Néev a fervèer, fèesta in granèer. – Neve in febbraio, festa in granaio.

La néev in simma ai bròoch la ciàama di èeter fiòoch. La neve sui rami chiama degli altri fiocchi.
Dal reggiano: quàand la néeva la s féerma in cavaasa, a in déev gnìir ’n’èetra badilaasa! Quando la neve si ferma sui rami, quando cominciano ad assottigliarsi, ne deve venire ancora una bella sbadilata.
A Limidi … simile : quàand la néeva la s féerma in simma al cavàas a in viin ancòrr di badilàas.

La néev marsulèina la duura da la siira a la matèina – la neve marzolina dura dalla sera alla mattina. E’ anche un ammonimento a sfruttare al meglio i brevi momenti favorevoli della vita.
Quàand la néev la viin arṡaana, a n in viin pèr ‘na stmaana – Quando la neve viene dal reggiano, ne viene per una settimana. Si parla di neve “arṡaana” quando la perturbazione che la porta viene da ovest di Carpi o Modena.

Al crèss cóome la néev al sóol: cresce come la neve al sole. Si dice di chi non vuole diventar grande e assumersi le sue responsabilità; oppure di una cosa che può solo diventare via via meno importante o perdere consistenza.
Fin da bambino ho poi sempre sentito parlare della famosa “anvèeda dal veintnóov” (nevicata del 1929, anno del “nevone”) ne cadde, per cinque giorni di seguito, una quantità davvero impressionate; e di ciò ne sono testimonianza i tanti ricordi della gente e in particolare le straordinarie foto della nostra bella piazza “piina èd cavaiòun d néev” (piena di cumoli di neve).
A néeva ròss!! = Nevica rosso – per dire di una cosa straordinaria o assolutamente inaspettata o incredibile. Nel caso invece di un fatto che non potrà MAI verificarsi, si potrà dire:
“Farai (o succederà) la tal cosa” – “Sèee! Quàand a néeva ròss!”

Di persona poco scaltra si diceva: L è un ucaròun da néev!
Laasa ch a pióova, laasa ch a néeva …. su Piròun ch andòmm a la féera!! Lascia che piova, lascia che nevichi … Su mio caro Pierone che andiamo alla fiera. Il significato della frase sottende alle più intriganti allusioni, ma … quando c’è da andare, c’è da andare !!
In ṡnèer, tèera biàanca dà bòun paan, tèera néegra gnaanch un graan. In gennaio, terra bianca dà del buon pane, terra nera neanche un grano; quando non nevica.
Quand la néev la caasca èd còo da la fóoia, a viin ’n invèeren ch al fa vóoia. Inverno pesante e duro … dunque.
Dla néev insimma a la fóoia, te n t in chèev briiṡa la vóoia. – Della neve sopra la foglia, non te ne cavi la voglia.

Avéer pisèe in più d ’na néev. Aver pisciato in più di una neve, ciò avere molta esperienza di vita.
La prìmma néev la pòorta alegrìa, la secònnda la pòorta fastiddi, e la tèersa la pòorta a tirèer dègl’òostii. La prima neve porta allegria, la seconda fastidio e terza fa imprecare.
Dòop la néev a viin al sóol e dòop la mèerda a viin l udóor. Dopo la neve viene il sole e dopo la merda viene l’odore. Fatale e ineluttabile.
Al ṡmaròoch (lo smarocco) dopo una intensa nevicata, può accadere che appaia il sole e si alzi la temperatura e la neve si sciolga velocemente. Penso che il termine derivi da scirocco e/o da vento del Marocco, quindi indichi aria più calda. La frase si usa anche in senso figurato quando un fitto affollamento di persone, si dilegua in velocità.
Quando c’è lo smarocco … a pissa al grònndi (sgocciolano le gronde).

Quando c’è la neve e il ghiaccio per terra, si coglie l’occasione per dire scherzosamente: “Al còunta bliṡṡga o pò caasca” (conta scivola e poi cade). Questo per indicare una cosa, una situazione o una persona che non contano
nulla. Persone che non possono essere considerate dei punti fermi (in senso concreto o figurato) di appoggio.
Noi ometti, chissà per quale motivo di struttura psicofisica maschile, non riusciamo a trovare le cose, anche quando sono con evidenza davanti ai nostri occhi, così spesso mi capitava di chiedere a mia madre: “Indu ée l …un sèert lavóor ?” La risposta, immancabile era: “Indu a n gh è néeva! Dio t missa d ’n imbambi!” (Dove è un certa cosa? – Dove non c’è neve! Tontolone!”)

Di sapore antico è “magnèer la néev cun la saaba” o “cun un portogàal” = mangiare la neve con la saba e con il sugo di una arancia. Erano delle granite primordiali, ma con un fascino e un gusto quasi da fiaba. Erano prelibatezze rarissime e straordinarie per chi non aveva nulla o quasi. Sono cose del passato, ma sono rimaste indelebili nei ricordi da bambini dei nostri nonni o genitori. Oggi irripetibili, anche solo per lo smog che sporca subito la neve. A questo proposito mi piace ricordare il commuovente film del 1984 di Florestano Vancini: “La neve nel bicchiere”, tratto da un romanzo del 1957 di Nerino Rossi che narra le memorie di tre generazioni di contadini della Bassa ferrarese su un arco di mezzo secolo (nel film dal 1898 al 1927) nel passare da “scariolanti” a mezzadri e, infine, conquistato un po’ di benessere, a inurbati. Una pellicola che fa pendant a “Novecento” di Bertolucci e “L’albero degli zoccoli” di Emanno Olmi che trattano lo stesso tema sulla dura vita contadina dell’inizio del ‘900.
La parola portogàal non deriva dal paese lusitano / iberico, ma dal greco. Nella letteratura del XIX secolo a volte l’arancia viene chiamata portogallo. In greco l’arancio si chiama “πορτοκάλι” (pronuncia: portocâli); in rumeno “portocală”, ancora oggi in arabo la parola usata per parlare delle arance è برتقال, burtuqāl, che ha soppiantato del tutto la parola persiana نارنج, nāranğ – che letteralmente significa “(frutto) favorito degli elefanti” – da cui deriva “arancia” (e “naranja”, in spagnolo). Non si deve però dimenticare che in arabo il burtuqāl indica l’arancia dolce, mentre nāranğ (d’origine persiana) indica l’arancia amara.
Bisogna poi notare che di solito vediamo abbondanti nevicate nei cosiddetti “dè dla Mèerla” (giorni della Merla), 29, 30 e 31 di gennaio, che sono secondo tradizione i più freddi dell’anno. La leggenda narra che molto tempo fa, quando i merli erano bianchi, accadde che una merla, per ingannare gennaio che regolarmente la maltrattava con il freddo e il cattivo tempo, decise di restare nascosta con tutta la famiglia. Uscì solo l’ultimo del mese, che allora durava 28 giorni, deridendo gennaio per essere riuscita a sottrarsi alla sua gelida morsa. Gennaio, infuriato, chiese a febbraio 3 giorni in prestito e scatenò una tempesta di neve e gelo, costringendo l’incauta merla a ripararsi dentro un camino diventando da allora, più cauta e con le piume nere.

Primo Saltini, originario di Limidi, ci regala questa intensa e delicata immagine poetica:
La néeva l’è bèela,
biàanca,
piina d candóor, cóome un ragasóol.
Ma al dè dòopo la caambia,
la dvèinta brutta,
néegra,
infanghèeda,
cóome ’n òmm piin d raabia.
Anche Tiziano Depietri, in arte cantoria detto Pace, nel febbraio del 2012, dopo quindici giorni di neve e gelo, ha avuto un comprensibile e simpatico sfogo in versi. Come capo operaio del Comune, responsabile delle squadre di pulizia per la neve, sia pure vicinissimo alla merita pensione, era proprio sotto stress.

La néeva

La néeva la caasca, la s pòogia, l’aumèinta e la spaaca i maròun!
La crèss in simma ai traas, in simma ai marciapée, in simma ai còpp.
Sè …al paan sòtta la néeva,
ma nisùun a fèer la ròtta e ch a s léeva.
Tutt i ciàamen, i teléefonen, i iin tutt spaṡmèe,
ma vigliàach ch i staaghen in ca … al chèeld … cuacèe.
I iin tutt fóora disprèe, i pèeren tutt maat.
La néeva la spaaca i maròun!
Ésiilo srèe, scóoli srèedi, traam, buss,
tréeno, aeroplàan féerem … tutt giasèe,
a va sóol, sòtt tèera, la metropolitaana;
la néeva la spaaca i maròun!
Graata cun la puiàana e daa gh dal sèel:
’na vòolta, dóo vòolti, trée vòolti;
la néeva la spaaca i maròun!
A n va màai bèin gniinta, a n s eggh ciàapa màai:
mè a farèvv …, mè a diggh …, a biṡgnarèvv …;
la néeva la spaaca i maròun!
A gh è frèdd !!! Pèr fòorsa, a sòmm in invèeren!
A gh è al strèedi giasèedi !!! Óo a sòmm in invèeren!
Óo!! Nisùun è pasèe cun la puiàana !!!
Cun al sèel, cun al badìil, la raaspa, la pèela, la vaanga …
La néeva la spaaca i maròun!
Prèesti, pèr furtunna, a gnarà aanch a pióover,
mò aanch l’aaqua la spacarà i maròun!
A vdrii ch a pasarà tutt, tèimp bée e tèimp brutt:
al mamòun, al ferdóor, la raabia, al giàas, l’aaqua … l infèeren …
La néeva la spaaca i maròun!
A gnarà aanch agòsst, se Dio vrà,
mò stèe sicùur, a n gh iidi pasiòun …
aanch al chèeld al spaacarà i maròun!!!!

 

d orazi

Mauro D’Orazi
Esperto in Dialetto Carpigiano