Danno esistenziale

Danno esistenziale

Il danno del non essere (temporaneamente) padre L’interessante sentenza del Tribunale di Milano del 5 ottobre 2016 riguarda – fra l’altro – un caso di illecito di un genitore di non aver consentito all’altro di frequentare (e ancor prima, di riconoscere) la propria figlia. Si tratta del noto danno da privazione del rapporto genitoriale, e la sentenza che si segnala è particolarmente interessante sul versante della quantificazione di tale pregiudizio.

I fatti descritti nella sentenza in commento sono – purtroppo – piuttosto ricorrenti per chi tratta di controversie nell’ambito dei rapporti familiari. Una parte, in particolare, lamenta che l’altra ha impedito, per circa due anni, di poter aver rapporti regolari e proficui con la propria figlia; nel caso di specie, peraltro, è il padre che lamenta come l’altro genitore abbia addirittura impedito il riconoscimento della figlia subordinando lo stesso alla preventiva sottoscrizione di un accordo contenente la regolamentazione degli aspetti economici relativi al mantenimento della minore. Non solo.

Dalla lettura della sentenza emerge altresì che la madre ha opposto un netto rifiuto alle proposte formulate dal padre, senza mostrare alcun margine di transazione “per motivi del tutto inconsistenti e che nulla hanno a che vedere con la preoccupazione della (…) per l’incolumità della bambina”.

Il tribunale, quindi, ha riconosciuto la responsabilità della madre con riguardo, da un lato, al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e, dall’altro, al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore. Ed invero, non ha dubbi il tribunale nell’affermare che il comportamento della madre “ha fortemente limitato la possibilità per il padre di creare con la minore un legame durante i suoi primi due anni di vita”; in particolare, evidenzia il giudicante, il padre “non ha certamente potuto partecipare in maniera piena e concreta ai primi fondamentali momenti di crescita della minore, non ha potuto partecipare alla crescita e alla vita affettiva della figlia, non ha potuto godere della sua presenza e del suo affetto, e quindi in concreto non ha certamente potuto instaurare una relazione adeguata con la stessa”.

Tale pregiudizio, evidenzia il giudice, è sicuramente risarcibile. L’appiglio normativo viene indicato in sentenza nella disposizione dell’art. 2059 c.c., così come costituzionalmente interpretata a seguito delle sentenze gemelle del 2008. In quell’occasione, infatti, la Suprema corte è giunta a riconoscere la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale indipendentemente dalla sussistenza di un fatto di reato e dalla previsione di una espressa disposizione che ne riconosca la risarcibilità, nei casi in cui sussistono, in concorso, tre condizioni: che l’interesse leso rivesta rilevanza costituzionale; che la lesione a quell’interesse superi una soglia minima di tollerabilità; che il danno non consista in meri disagi o fastidi.

La genitorialità, evidenzia il giudice con la sentenza in commento, costituisce un diritto costituzionalmente garantito dalle norme degli artt. 2 e 29 Cost.; la lesione, peraltro, è consistita nel non aver potuto assolvere, da parte del padre, e non per sua volontà, ai doveri verso la figlia e non aver potuto godere pienamente della presenza e dell’affetto della piccola. Dalle risultanze processuali, peraltro, è indubbio che la responsabilità di tale situazione sia imputabile alla controparte la quale – prosegue il tribunale citando una sentenza del tribunale di Roma, “con il suo ostinato, caparbio e reiterato comportamento, cosciente e volontario, è venuta meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare ma anzi di favorire la partecipazione dell’altro genitore alla crescita e dalla vita affettiva” della figlia.

Accertata la responsabilità, il giudice prosegue nell’affrontare la questione relativa alla determinazione del quantum del risarcimento. E qui sta il punto di maggiore interesse.
Secondo il giudice, il punto di partenza (al quale, precisa, sarà poi necessario applicare una serie di correttivi al fine di poter adeguare la soluzione al caso in questione) deve essere il ristoro economico che si prevede debba corrispondersi a un genitore per la perdita (della vita) di un figlio, secondo le tabelle previste dal tribunale di Milano. Il giudice ha, ovviamente, a cura di precisare che “nella fattispecie in disamina non si tratt[a] (fortunatamente) della perdita del figlio ma del ristoro del danno che dalla “mancata/tardiva relazione con il medesimo” è derivato al genitore illegittimamente privato per fatto o è colpa dell’altro dalla relazione – latamente intesa – con il proprio bambino”.

Il tribunale prende quindi come riferimento l’importo minimo che verrebbe liquidato per la perdita del figlio, ossia euro 163.990. Il giudice prosegue evidenziando che l’iter logico che deve essere seguito per individuare l’importo da riconoscere quale risarcimento del pregiudizio di cui si sta discutendo sia quello di dividere l’importo sopra indicato per gli anni di vita media di una persona, “al fine di poter calcolare il “valore” della perdita della relazione con il figlio rapportato al singolo anno di vita del figlio di cui il genitore non ha potuto godere”, specificando nuovamente che “a detto risultato dovranno poi essere apportati opportuni correttivi, in aumento o diminuzione, al fine di adeguare un calcolo meramente matematico a una realtà che, come risulta chiaro, non può essere valutata esclusivamente attraverso un mero calcolo aritmetico”.

Dividendo l’importo sopra indicato per 80 (che il giudice indica come “anni di vita media di un papà”) si ottiene l’importo di euro 2050 circa. Da qui, tuttavia, il giudice innesta un ragionamento equitativo che giunge, di fatto, a modesto parere di chi scrive, a svuotare di significato il ragionamento preliminare svolto.
Ed invero, il tribunale, considerando che – per l’appunto – la valutazione cui si è giunti debba essere corretta al fine di adeguarla al caso di specie, e tenuto conto che, nel caso di specie, il genitore “è stato privato della possibilità di esercitare appieno il proprio ruolo di padre per i primi due anni di vita della piccola” e quindi “in un lasso temporale particolarmente significativo nella vita di un bambino e dei propri genitori, in cui si assiste ad una crescita rapida e a cambiamenti importanti, trattandosi dell’iniziale evoluzione di un figlio che da neonato diventa un bambino e, com’è noto, proprio in questo lasso temporale si verificano (…) i primi significativi mutamenti e progressi fisici, caratteriali ed intellettivi e si instaura quell’iniziale e fondamentale attaccamento al papà nonché il riconoscimento da parte del bambino della figura paterna”, determina equitativamente in euro 15.000 l’importo del risarcimento del danno subito dal genitore.

Ora, e in conclusione: sicuramente bene ha fatto il giudice nel riconoscere l’illecito in questione e nel quantificare il danno in un importo serio. Tuttavia, forse inutile, tenuto poi conto dell’operazione di personalizzazione che ha operato, risulta essere il ragionamento preliminare in cui si prende come riferimento base la tabella del tribunale di Milano e la voce relativa alla perdita del figlio.
Tribunale di Milano, sex. IX, sentenza 5 ottobre 2016-A cura della Redazione Wolters Kluwer, Quotidiano Giuridico

Avvocato Francesco Murru
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