Curarsi, Amarsi.

Curarsi, Amarsi.

Nel Vangelo troviamo scritta la frase: “ama il prossimo tuo come te stesso” dando per scontato che una certa quantità di egoismo sia inscritta in ciascuno di noi. Io non ne sarei del tutto sicura. Riuscire ad avere cura di sé è più una conquista che un istinto. Lo conferma il fatto che negli ultimi vent’anni se ne fa un gran parlare.

Le riviste, maschili e femminili, sono piene di articoli su come prendere del tempo per se stessi, su come dedicarsi attenzioni fisiche e psicologiche. Sono disposta ad ammettere che parte dell’appeal di questi articoli stia proprio nella voglia di pensare a se stessi, ma se questo amor di sé fosse automatico per tutti, non ci sarebbe bisogno di parlarne.

L’osservazione clinica conferma questa tendenza: siamo spesso confusi dal compiacere gli altri, dal temere le loro reazioni, dal tentare di raggiungere gli ideali della società e da molte altre mete, per altro irraggiungibili. Ma allora come ci si prende cura di sé?

La domanda – lo so che l’ho fatta io – è mal posta. Si dovrebbe piuttosto formularla così: quali sono quelle esperienze e quegli elementi psichici che fanno sì che noi riusciamo ad amare noi stessi e a trovare il nostro posto nel mondo?

Per rispondere devo illustrare il complesso di Edipo. Il suo vero significato. Credetemi, vale il tempo della lettura. Il complesso di Edipo sorge tra il terzo e il quinto anno di vita nella sua prima edizione e poi si ripresenta in adolescenza, rispettivamente fase fallica e fase genitale. Illustrerò qui solo quello maschile essendo quello femminile molto più intricato.
Verso i tre anni il bambino inizia a volere la sua bella mamma tutta per sé.
La zona erogena che era stata la bocca e poi l’ano, diventa ora il pene. Il bambino prende a giocarci e a sentire piacevoli e intense sensazioni fisiche. Quella zona diventa il centro del suo interesse.

Sul fronte delle relazioni, il bambino a quell’età ha raggiunto la capacita di rapportarsi a molte persone e a capire la natura delle loro relazioni. Capisce che fra mamma e papà c’è una relazione forte e forse sospetta che qualcosa di bello succeda dietro la porta della camera chiusa. Non sa formulare bene cosa, la sua è più una sensazione che un pensiero.
Il bambino arriva così ad una sintesi molto acuta: se la madre è stata per lui fino a quel momento la maggiore fonte di gratificazione, di cibo, di calore, di conforto, prova a tenersela tutta per sé. Molto prima di Freud, Rousseau aveva affermato: se il bambino di tre anni avesse la forza di un uomo di venti, ucciderebbe il padre e giacerebbe con la madre. Nella realtà, il bambino, pur essendo geloso del padre, non è disposto a rinunciare all’amore del padre e, dopo un certo lavorìo interiore, conclude la prima edizione dell’Edipo rinunciando a prendere il posto del padre, al meno per il momento.

Le conquiste psichiche che sono state necessarie per questa prima fase sono di fondamentale importanza. Per prima cosa il bambino si inserisce in una linea temporale sia rispettando l’ordine delle generazioni sia imparando ad aspettare il tempo necessario per avere una donna tutta per sé. Nel rinunciare alle sue pretese sulla madre e nell’ammettere con se stesso che ama il padre, nonostante gli sottragga parte dell’amore della madre, il bambino trova un suo posto nella famiglia, trova la sua ‘porzione di amore’. Questo anche rispetto ai fratelli. Si crea una mappa mentale delle relazioni e dei vari tipi di reciprocità che esistono, un’idea delle gerarchie e un’idea di uno spazio di azione che riserva per sé.

Nell’adolescenza, quando l’Edipo si ripresenta in forza ancora maggiore anche perché la potenza sessuale ormai effettiva rende l’amore per la madre più pericoloso, il ragazzo rimuove tutto questo dalla sua coscienza e, con l’aiuto del padre che lo aiuta a concentrarsi sul mondo esterno alla famiglia, trova una sua strada: una compagna, degli amici, una professione e tutto il resto. Il suo amore per la madre non è stato né completamente accettato, né completamente respinto. Esso è stato ridimensionato e collocato in una giusta proporzione lasciando al ragazzo la sensazione che nella vita egli è qualcosa di importante per molte persone con le quali ha relazioni di tipo diverso.

È questa consapevolezza, iscritta profondamente nella psiche, che fa dire ad alcuni, più fortunati fra noi: se sono degno dell’amore altrui, sono anche degno del mio stesso amore. Il contrario è narcisismo.

Dottoressa  Giuliana Gibellini
Psicologa-psicoterapeuta
Specialista in psicologia clinica
Info 339 4686175