Al Pòorch o Al Póorch

Al Pòorch o Al Póorch

Il Maiale: l’allevamento del porco nelle nostre zone pare abbia quasi cinquemila anni: testimonianze certe sono state trovate nelle terramare, gli insediamenti caratterizzanti le zonesoggette ad inondazioni nella Bassa tra Piacenza e Bologna, risalenti all’Età del Bronzo.

In resoconto di recenti scavi archeologici del mantovano di un sito preromano ricco di avanzi ossei e resti di cucina veniva messo in evidenza il fatto curioso che quasi tutti quelli di maiale appartenevano alla metà anteriore dei suini. Ciò potrebbe far ipotizzare che quegli antichi progenitori non solo sapessero fare i prosciutti, ma li commerciassero, scambiandoli con prodotti non reperibili nelle nostre zone. Nel I secolo a. C. Marco Terenzio Varrone sanciva solennemente: “Si crede che la natura abbia regalato il porco all’uomo per farlo vivere lautamente”.

L’allevamento domestico di questo animale e la sua uccisione, erano per i contadini capitoli di vita e momenti di straordinaria importanza.
Il maiale per tradizione si uccideva solo in un ristretto periodo dell’anno, tra fine novembre e gennaio, tanto che, di coloro che dell’eloquenza facevano difetto, si diceva: Al ciacaara sóol quàand i maasen al niméel (Parla solo quando uccidono il maiale). La data d’inizio della macellazione era Sant’Andrea (30 novembre): Pèr Sant’Andarièin a s maasa al ninèin (Per sant’Andreino si uccide il maialino), quella ultima era sant’Antonio (17 gennaio): Sant Antònni dal pòorch (Sant’Antonio del porco), anche perché col grasso del maiale i religiosi dell’ordine di sant’Antonio di Vienne preparavano il loro unguento contro l’”erpes zoster”, il fuoco di Sant’Antonio, appunto.

Sant Antònni dal purchìin
(del porcellino ovvero Sant’Antonio Abate protettore degli animali)
chè a n gh è paan, chè a n gh è vèin,       qui non c’è pane, non c’è vino,
a n gh è lèggna da brusèer!                      Non c’è legna da bruciare!
Sant Antònni cus òmmia da fèer?             Come dobbiamo fare?

Quando uno si innamora o si mette insieme con una persona brutta, grezza o puzzolente, si può commentare: ”Sant Antònni a sèera imanurèe d un póorch!” Bè! Cosa c’è di strano? Sant’Antonio si era innamorato di un porco!
Nella cultura contadina l’uccisione del maiale assume un valore simbolico e un momento di sentita aggregazione sociale. Era un giorno importante lungamente atteso nel quale, finalmente, si raccoglievano i sospirati frutti di mesi e mesi passati amorevolmente a nutrire e ad allevare il maiale, nella certezza che anche in quelle giornaliere attenzioni, dipendesse la bontà e l’abbondanza delle sue carni.
Era un giorno che i bambini attendevano con trepidazione e paura consapevoli che assistere alla cruenta uccisione del maiale fosse come una sorta di iniziazione. Era un giorno in cui si sacrificava un essere simpatico e grufolante divenuto, ormai, membro della famiglia. Ma il momentaneo dispiacere per la perdita era ricompensato dalla quantità delle carni.
Il maiale era ed è un vero simbolo di abbondanza e fertilità e, ancor oggi, la sua morte accidentale o per malattia, è vista quale presagio di sventure e carestie. La tradizione vuole che la macellazione avvenisse con i primi rigori invernali; i mesi propizi erano fine dicembre e gennaio. La scelta di questo periodo dell’anno dipendeva dalle rigide temperature che raffreddano e asciugano più velocemente la carne e di conseguenza favorivano una più veloce lavorazione.

Il rito della pcarìa (beccheria, macellazione) aveva queste fasi.
Fin dalle prime luci del giorno fervevano i preparativi per il compimento del “sacro rito”: le donne pulivano il luogo del “sacrificio” di solito un angolo del porticato all’interno della corte.
Il maiale veniva prelevato dal porcile alla mattina presto; prima si aveva cura di preparare l’acqua bollente, il paranco per tirarlo su, affilati i coltelli per macellarlo, il sale, ecc …
Al pchèer, un esperto macellaio itinerante e prenotato per tempo, uccideva il maiale con la dovuta perizia, dopo averlo legato per il muso e tenuto immobile con l’aiuto di due robusti aiutanti. L’animale veniva dissanguato, vuotato dalle interiora e sezionato con cura. Nulla veniva buttato: con la carne, a seconda dei tagli, si preparavano prosciutti, coppe, salami, salsicce, pancette e zamponi; la lingua si metteva in salamoia; con gli ossi si faceva il brodo; le setole venivano date al ciabattino e le frattaglie (e spesso le costolette) venivano consumate subito o offerte a qualche ospite di riguardo, come il parroco, il veterinario o il padrone delle terre.

Le cronache locali nel 1949 danno questo interessante resoconto dei momenti di una giornata tanto attesa per la famiglia interessata:
“Accorrono ora anche le donne ed i piccoli e tutti restano a lungo a rimirare il povero porco, quasi con dolore. Nel pomeriggio la macellazione viene ultimata;i prosciutti ed il lardo vengono messi sotto sale nella conca, la sacchiglia viene appesa ad una pertica sostenuta dalla trave della cucina, perché asciughi, lo strutto è colato nella vescica ed i saporiti ciccioli sono messi, sotto peso, nell’apposito sacchetto. La grande giornata ha termine con una cena alla quale interviene anche qualche invitato e si gustano gli squisiti tortellini con la salciccia e la noce moscata, nonché un buon arrosto fatto con lo spinale della bestia uccisa. È inutile dire che il tutto viene innaffiato con qualche bottiglia di vino buono.”

La cosiddetta maialata era fino a non molti anni fa un rito diffusissimo nelle campagne padane e non solo. Dopo la macellazione del maiale, che quasi ogni famiglia allevava o faceva allevare, si organizzava una grande mangiata, allo scopo anche di consumare subito quello che non si poteva conservare più di tanto prima dell’arrivo del frigorifero.
Un brodino di ossa di maiale era la base del “riso e véerṡa”; la verza era in gennaio l’unica verdura disponibile.
Oltre ai tanti detti sul maiale e sulla sua uccisione, esistono anche molte superstizioni. Non si doveva ad esempio ucciderlo in presenza di femmine mestruate, né pronunciare parole di cordoglio, dolore, compassione o di compatimento per la cruenta e triste fine della bestia. Non si poteva macellare di venerdì, nei giorni 7, 13 o 17, nonché nei primi giorni del primo quarto di luna, in quanto la conservazione della carne avrebbe potuto essere a forte rischio e imputridire. In Romagna, per guarire il maiale dalle più comuni malattie, specie se attribuite al malocchio, gli si tagliava un pezzetto di orecchio o di coda, lo si faceva bollire e lo si gettava nel letamaio. Bere acqua, anziché vino, quando si mangiava carne suina, era infine considerato un segno di sventura.
Occorre sottolineare con forza che il maiale era uno degli animali cardine della civiltà in generale e della civiltà contadina in particolare: era fornitore di ricchezza alimentare e materiale, immagine di opulenza ed allo stesso tempo di stupidità, sporcizia e immoralità.

Ci sarebbe molto da dire sulla simbologia del maiale, mi piace a tale proposito ricordare il significato dei salvadanai a forma di porcellino. Ma ad ogni modo è evidente la sua vitale importanza sia per i contadini, ma anche per chi abitava in città; la sua uccisione trascendeva la crudeltà dell’atto sanguinario in sé e rappresentava un evento e una delle rare occasioni (per chi se lo poteva permettere) di mangiare carne durante l’anno. Per la nostra regione, addirittura, è diventato quasi un blasone distintivo a causa delle infinite specialità gastronomiche che ne derivano: basti notare ad esempio che la mortadella, fuori dall’Emilia-Romagna, è spesso conosciuta semplicemente come “bologna”.

Attilio Sacchetti (Carpi) ci ricorda che anche a Carpi la macellazione ad uso alimentare era sinonimo di ricchezza, agiatezza o, quanto meno, di linea di demarcazione, discrimine tra la povertà e peggio l’indigenza ed un vivere discretamente. Naturalmente tutto va storicizzato.
Nel carpigiano il maiale veniva macellato in città dai benestanti, dai proprietari terrieri, dai liberi professionisti e in campagna da quelle due categorie di contadini che si odiavano, ma che erano in pratica uguali e benestanti: i coltivatori diretti e i mezzadri.
Invece non potevano macellare il maiale gli urbani lavoratori dipendenti e i braccianti agricoli, cioè la maggioranza della popolazione, tutti lontano dalla società benestante e borghese.
Quando i ragazzi, uniti nelle bande di strada, parlavano di un coetaneo la cui famiglia l iiva masèe al pòorch, si parlava di uno che ormai era diverso da tutti gli altri, perchè le normali famiglie conoscevano il maiale solo tramite l uunt (lo strutto) e al graas (il lardo) che, in misura calcolata col bilancino da farmacista, servivano per condire minestre e improbabili pietanze.

Sacchetti rileva anche che a Carpi la macellazione del maiale NON era certo una festa per la comunità. Lo era solo della famiglia che qualche volta si degnava di regalare un pentolino di sangue fresco o un pezzo di polmone (al léev) al bracciante agricolo o al servitore.

I nomi del maiale
Uno dei particolari rivelatori dell’importanza del maiale è la quantità di nomi diversi con cui è conosciuto, non solo nel dialetto carpigiano, ma anche in altri dialetti e nella lingua italiana. Vediamo allora le varie incarnazioni verbali di questo animale nel dialetto delle nostre zone: sfiorerò Parma, Mantova e la Romagna, terre anch’esse ricche di nomi, oltre che di interessanti e simpatiche definizioni.

Spesso gli appellativi usati travalicano le zone di origine e si mischiano ai dialetti locali; penso che ciò dipenda dalla forte mobilità, almeno un tempo, delle famiglie contadine che li allevavano e che spesso erano costrette a trasferimenti anche di decine di chilometri. Vista l’importanza dell’allevamento, si è arrivati a una diffusione molto ampia di denominazioni del maiale, con confini tutto sommato incerti; si tratta di variazioni che in ogni caso vengono subito e ben comprese in ogni luogo senza alcuna difficoltà.

Pòorch (o póorch)
Principalmente il maiale è conosciuto con questo nome. Usata come sostantivo o aggettivo a sé stante, questa parola si trova pronunciata in vari modi: es. “ciàapa al pòorch ” (prendi il maiale) oppure “l è un pòorch ” (è un maiale). La parola viene utilizza anche come aggettivo associato ad un nome nelle imprecazioni e anche nelle bestemmie: es. “bòoia pòorch ” (boia porco), “cal pòorch èd Giùuda” (quel porco di Giuda).
Se in una frase “pòorch ” precede immediatamente il nome a cui è riferito, allora prende la “o” finale dell’italiano e diventa “porco” (in questo caso la o accentata è sempre pronunciata ò): es. ”pòorco bòoia”, oppure “pòorco Giùuda ”.
Molto simpatico è il termine ferrarese di burgatt o busgatt.

Maièel
Questa parola la si usa quasi esclusivamente riferita al maiale in senso alimentare, inteso come pezzo di carne: es. “ ’na bistècca d maièel “ (una bistecca di maiale), “l aròost èd maièel” (l’arrosto di maiale) e così via. Rarissime volte la si sente usata riferita al maiale come animale, sebbene in altri dialetti delle zone vicine sembra venga usata normalmente anche in questo ambito. Al femminile “maièela”, l’uso è solamente sessista e offensivo, ha uso fortemente spregiativo ed è riferito a persone.

Ninèin (o ninètt)
Questo appellativo, difficilmente traducibile in italiano, è in realtà un vezzeggiativo; sembra possa derivare dall’antico verbo “ninnare” (cullare). Infatti indicherebbe in origine i maialini da latte, sia a causa della tenera età, che per i loro versi somiglianti ai vagiti dei neonati. Si identificano in ogni caso esseri preziosissimi nell’ambito dell’economia familiare di campagna e degni di ogni possibile cura e attenzione. Questa parola, attraverso gli anni, è diventata per semplificazione sinonimo di maiale di qualsiasi età. E’ simpatico ricordare anche i vari appellativi derivati: ninòun, ninòuna, ninni, ninei, ecc … sono tutti vezzeggiativi riferiti a bambini o a persone.

Smins(t)èina
Indica una maialina (femmina) appena svezzata che, ritenuta adatta per tutta una serie di caratteristiche, si allevava per farla poi partorire e allevare i suoi discendenti. Il termine si usa fino alla prima fecondazione (fonte: Oscar Clò – Campogalliano).

Niméel
Questa parola è esplicativa del valore che si dava al maiale. Infatti è la contrazione di animèel (animale). Il maiale è quindi L’Animale, l’unico, per antonomasia e per eccellenza. Questo termine è usato spesso in senso dispregiativo per descrivere un uomo od una donna di facili costumi: in particolare indica una persona molto libertina e dedita allo sfrenato godimento della vita, specialmente dal punto di vista sessuale, piuttosto che mercenaria. In riferimento però a quest’ultimo significato, si usa anche il diminutivo nimalussa. L’allevamento del maiale seguiva una tecnica molto ben delineata: i maiali durante il loro sviluppo erano chiamati: latòun (lattonzoli); magròun, scursòun e poi finalmente niméel, quando erano pronti per l’ingrasso.

Gugióol
Termine caratteristico usato in varie località delle nostre parti, ma più tipico del mantovano; definisce perfettamente l’animale soprattutto quando è giovane ed arzillo. Si usa anche a Carpi e sarebbe interessante avere un’etimologia di questa strana parola. Forse nasce come voce onomatopeica, che imita il verso dell’animale deformazione lessicale del verbo “uggiolare”, e quindi “guggiolare”, da cui “gugióol”. Nella bassa latinità si trova come voce del cane il verbo “baubare”; molti altri simili deliziosi esempi sono nel libro di Maurizio Bettini “E l’uomo diede voce agli animali – Torino 2008.
Anche questo termine ha un ampio uso dispregiativo: talora anche dal punto di vista della condotta sessuale (anche se mai riferita a sesso mercenario, ma solo al puro libertinaggio), ma principalmente riferito alla pulizia e all’igiene personale. È anche usata come sinonimo di trovarsi bene in una situazione: es. “a stèeva bèin cóome un gugióol” (stavo bene come un maiale, cioè mi trovavo bene e a mio agio). Ciò perché il maiale sembra stare comodissimo, sereno e tranquillo… quando si rotola nel fango.
Romanticone:
“Andai nel ciuso, baciai la mée gugióola.
A m parìiva èd baṡèer tè, mia cara Caróola!”

Tróoia
Questa parola indica la scrofa (anche se, per essere precisi, indicherebbe la femmina di maiale gravida); viene spesso usata anche oggi come sinonimo di puttana e donna non propriamente proclive alla continenza sessuale.
Circa la terribile figura umana de “la tróoia carpṡaana”, espressione che definisce esseri capaci di tutto e mentitori, ma anche simpatici, tratteremo in una prossima ricerca.
Spostandosi un po’ verso nord, Bassa e poi mantovano, il termine si trasforma in róoia e in ròia, sempre con gli stessi significati.

Vèrr
Verro, maschio del maiale; usato per la riproduzione. Un animale forte e pericoloso, da trattare con estrema prudenza.

Un personaggio importante nel ciclo dell’allevamento del maiale era “al castrèin”, che provvedeva alla castrazione degli animali con una tecnica che è meglio non descrivere, perché a m viin i sgrisóor.

Vèrra
Si usa anche questo termine per definire la scrofa, la fattrice adulta da allevamento.

Biraac’ = è un vitello e / o… forse anche un maiale con meno di un anno.
Termine è usato nella ristretta cerchia dei commercianti di bestiame e allevatori; però a volte veniva usato anche per definire un ragazzotto “ben piantato”.
Ho tenuto per ultimo questo termine, perché è incerto come significato; esiste sicuramente nel carpigiano in quanto è (era) usato come scutmàai di una delle tante famiglie Lugli: i Lùi Biraac’. Solitamente indica un vitello, ma io l’ho sentito anche usare per i giovani maiali.

Alcune testimonianze sui nomi
Gaetano Fiorani (Vignola): “A volte ho sentito chiamare il maiale con l’appellativo di tugnìin; che era lo stesso appellativo che si dava ai tedeschi in tempo di guerra. Non so purtroppo l’origine. Forse allora per definire i tedeschi si usava questo appellativo che poi è stato trasferito ai maiali per dispregio alle truppe di occupazione. O è in effetti un nome dato ai maiali e trasferito ai tedeschi per lo stesso scopo? Comunque ho sentito chiamare il maiale con questo appellativo.

Pare anche che il nome tugnìin si riferisca al maiale piccolo, difettoso, o malato, che veniva venduto nei caseifici (o allevamenti) ai produttori di porchetta”

Villiam Vecchi (Crevalcore – BO): “Probabilmente ci troviamo di fronte a due origini diverse che poi sono state mischiate. Tugnìin, nel 1800, era un pagliaccio del circo: fanfarone, stupido e gradasso; i milanesi al tempo degli austro-ungarici affibbiarono agli occupanti questo nome in dispregio. Il maiale che per diversi motivi veniva allevato in libertà in certi paesi soprattutto nel polesine, ma anche nel meridione era chiamato Toni o Tunin in onore del Santo (Antonio) che è patrono degli animali, in specie del porcello. Questo maiale, nutrito dalla comunità, era poi macellato e condiviso dagli abitanti. Unire i due termini e abbinarlo ai tedeschi fu fin troppo facile e automatico.”

Marco Bassi (Calderara – BO): “Nella montagna bolognese dalla parte che da Loiano va verso la Romagna, si dice “e sgòng”, mentre nella bassa bolognese “ninni”. La femmina destinata alla riproduzione si chiama “smintèina”, mentre “la róiia” è quel maialino che non è riuscito ad accaparrarsi il capezzolo personale, perché è in soprannumero. Deve accontentarsi, nella meglio ipotesi, “dla tàtta d drì”, che notoriamente sono più scarse di latte delle altre. Altrimenti “i gh sguzlevan chi ètar titèin”, ma la fame era sempre presente e loro si lamentavano continuamente. Veniva così chiamato anche un bimbo che non cresceva con il ritmo sperato e che presentava problemi in genere. Detto bimbo poteva essere chiamato anche “scagòz”.
Giambattista Moreali (Modena): “Gugiól è il maiale dei ferraresi. Come se noi modenesi lo chiamassimo gudió, perché veramente è fonte di gioia e godimento grande.”

Modi di dire e proverbi
Il maiale è protagonista di moltissimi modi di dire e proverbi; eccone di seguito alcuni fra i più significativi e divertenti.

• “L à miss al pòorch a l’òora” (ha messo il maiale all’ombra); questa frase significa aver sistemato al chiuso (ind al ciùuṡ che era il luogo dove venivano allevati i maiali) per l’ingrasso l’animale, ma anche e soprattutto, dopo la macellazione, la collocazione dei pregiati tagli di carne in idonei locali freschi e aerati per la stagionatura. Con questa frase, spesso malevola e carica di invidia, si sottintende il raggiunto benessere, o quanto meno una situazione serena e tranquilla con riferimento al futuro. Dopo sette mesi di allevamento al reṡdóor capofamiglia poteva ora tirare un lungo sospiro di sollievo: il companatico era assicurato. Questo modo di dire è stato però traslato anche in campo matrimoniale, in presenza una forte convenienza di una delle parti. Ad esempio quando una giovane fanciulla accetta di sposare un uomo (spesso più vecchio), ma molto ricco, la frase verrà ripetuta spesso con cattiveria e stizza da parte di altre donne. Allo stesso modo si dice del giovane di bell’aspetto e poca voglia di impegnarsi che sposa l’ereditiera, magari non proprio avvenente, ma di sicure attrattive economiche. Curiosamente, in tono sarcastico, queste parole sono state ri-tradotte a Carpi (con una rara operazione a l’incontraire – … óo l è in francéeṡ, mìa in dialètt – di tipo gergale mondano – salottiero) in italiano e molto usate in certi ambienti cittadini un po’ snob e elitari, per commentare circostanze come quelle appena ricordate. Si parlerà quindi, con pungente e malevola ironia, che una tal ragazza o una certa signora ha “provveduto all’ombreggiamento del maiale”.
• Póorch! Usata come sostantivo o aggettivo a sé stante, questa parola si trova pronunciata in vari modi: es. ciàapa al póorch (prendi il maiale), oppure l é un póorch (è un maiale).
• La parola viene utilizzata anche come aggettivo associato ad un nome nelle imprecazioni e anche nelle bestemmie: es. bòoia póorch (boia porco), cal póorch èd Giuda (quel porco di Giuda). Se in una frase “póorch” precede immediatamente il nome a cui è riferito, allora prende la “o” finale dell’italiano e diventa “porco” (in questo caso la o accentata è sempre pronunciata ò):es.” porco boia”, oppure “porco Giuda”.
• Fióol d ‘na tróoia: figlio di una troia; epiteto ingiurioso che taluni si scambiano durante battibecchi violenti.
• “L è ignoràant cóome un pòorch! ” (è ignorante come un porco) oppure “Al gh à la cugnisiòun d un pòorch!” (ha la cognizione di un maiale) sono frasi che individuano persone non certo all’apice della scala intellettiva. Vale la pena di sottolineare “cugnisiòun” (intelligenza, discernimento): è una di quelle bellissime parole del dialetto che non devono andare perse e che in sé ha il senso del bene e del male, … ’na ròoba da Adamo ed Eva!
• Nel gergo dei muratori carpigiani:”Te scamùus come un rugàas! (Capisci come un maiale!)” oppure per indicare il maiale: al ruscaróor da brigóora.
• “L è graas damàand un pòorch!” (di chi è eccessivamente grasso).
• L è un vilàan, bióolch, póorch (è un villano, bifolco e porco) per dire di una persona grezza, volgare, maleducata e rompiscatole.
• “L è spòorch cóome un pòorch !” è un gioco di assonanza di parole per dire che uno è lurido come un maiale.
• “Al maagna cóome un pòorch! ” indica chi mangia come un maiale, sia per la quantità che le modalità sconvenienti; in aggiunta si può dire “Biṡgnarèvv dèer èt da magnèer in ’n èelbi!” (bisognerebbe darti da mangiare nella vasca-magiatoia dei maiali), dove appunto viene riversata la ṡòtta da pòorch, che è il pastone tiepido con cui si nutrono i suini.
• “L è un pòorch, o ’na niméela, o ’na tróoia! ” per indicare chi è particolarmente vizioso.
• Tutt i òmm i iin di póorch e tutt èl dònni dèl tróoi: tutti gli uomini sono degli sporcaccioni e tutte le donne poco serie. Osservazione un po’ generica e troppo semplicistica, ma spesso citata.

• Da che mònnd è mònnd a n s è màai visst un póorch dvintèer vèec’; mò un vèec’ dvintèèr póorch … sé!: da che mondo è mondo non si è mai sentito che un maiale diventi vecchio, ma che un vecchio diventi un gran sporcaccione … sì!
• Al gh à ‘na tèesta ch a n la pèeca gnaanch i naader o a n la magnarèvv gnaanch i póorch o i béegh o i sòrregh: ha una testa che non la beccherebbero nemmeno le oche, né la mangerebbero i maiali o i vermi o i topi.
• “Al pianṡiiva cóome un gugióol o un ninètt ” piangeva come usa un maiale o un maialino al macello.
• “Pèr Sant’Andrea (30 novembre) ciàapa al pòorch pèr la sèa (codino, forse non è carpigiano, ma reggiano … credo). E s te nn al vóo ciapèer, laas l andèer fin a Nadèel ” Per Sant’Andrea, prendi il maiale per il codino e se non lo vuoi prendere per quella data, puoi rimandare la sua macellazione al massimo fin sotto Natale.
• “Da Santa Lucia a Nadèel, al vilàan al maasa al maièel” Da Santa Lucia a Natale il contadino ammazza il maiale.
• “Pèr San Tomée (29 dicembre), ciàapa al pòorch pèr i pée” Per San Tommaso prendi il maiale per i piedi, ovvero si compie l’azione di rovesciare il maiale su un fianco dopo averlo legato per le zampe, prima di macellarlo.
• “Pèr la Santa Epifania, se al niméel al n è mìa mòort, l è in agonìa ” Se per l’Epifania il maiale non è ancora morto, è certamente in agonia.
• come si è detto del maiale non si buttava via nulla: dal sangue alle setole, passando per tutto quello che ci sta in mezzo. Qualche spiritoso un pòo melnètt teneva a specificare che più che del maièel, l è dla maièela ch a n s caasa vìa gniinta, … gnaanch … un péel.
• Un vecchio detto emiliano dice: “Il maiale è come la musica di Verdi: non c’è niente da buttar via”; ma tipica di Carpi è nota anche questa variante: “Cum ée la stèeda aiéer siira la Bohème a teàater ?” (Come è stata la Bohème ieri sera a teatro?); la risposta era: “Cóome al ninèin, a n gh è gniinta da ṡbaater vìa” … come il maiale non c’era niente da buttar via.
• Altra frase profondamente carpigiana è riferita a chi, di condizione modesta e di figura robusta, si veste per un’occasione con imbarazzate presunta eleganza. L’esito ridicolo della mise (sèmmper in francéeṡ) provocava questo tagliente commento “Al pèer un pòorch in landò!”,
• T ii indrée cóome la còvva dal pòorch! Sei indietro come la coda del maiale, cioè proprio che più indietro non si può. Una frase che si indirizza a persone che non sanno stare al passo coi tempi, antiighi o più semplicemente che non sanno tenersi aggiornate con le ultime novità.
• Purtèer la tróoia al guadàagn. Portare la scrofa alla monta. Il doppio senso è fin troppo facile, anche senza troppi sforzi di fantasia.
• Te gh ii da tèes cóome la codga al gràss! Ci sei vicino come la cotica – la pelle – al grasso (sono strettamente saldate). Quando una minaccia di botte è ormai vicinissima ad avverarsi. Ed esempio … una sculacciata per un bambino birichino, che non smette di far arrabbiare la madre.
• Nome dialettale di una rinomata macelleria suina araba (ad absurdum): “Al Salàam!”.
• “Cumma vaala?” – “Cóome un pòorch in sìmma a ‘na piòopa sèinsa ungiin!” Come va? Come un maiale senza unghie sopra una pioppa. L’assurda risposta dà un’idea che le cose non vanno effettivamente troppo bene … anzi!
• A n s è mai più ciacarè èd cla còppa! Non si è mai più parlato di offrire o restituire una coppa. Nel senso che una promessa fatta con una certa solennità non poi è stata mantenuta, pertanto il mancato e deluso beneficiario istiga il mentitore con salace ironia.
• Ai tempi del liceo, assieme a un numeroso gruppo di amici, c’era l’uso di frequentare alcune trattorie fuori Carpi; una sera l’allegra brigata si lasciò andare a pesanti eccessi verbali e a eruttazioni spassionate e continue (non prive per altro di un certo fondo artistico), così come è, da sempre, becero uso fra giovinastri sprudintèe (sprudentati) e senza timor di dio. Ciò suscitò fastidio e riprovazione nel locale. All’ennesima intemperanza, arrivò la reṡdóora con il fazzoletto in testa e le mani sui fianchi (tipica posa corporea delle nostre zone). Con una faccia seria e disgustata, ci fissò un attimo e poi ringhiò: “Àan i avèert i ciùuṡ?” (hanno aperto i locali di custodia dei maiali? Naturalmente i maiali eravamo noi.).
• Quando in una compagnia maschile di amici, qualcuno si lascia andare a eruttazioni spassionate e artistiche, è facile sentir dire: “Al ghèerb l è brutt, mò al pòorch al stà bèin!” (il garbo è brutto, sconveniente, ma il porco sta bene!). Oppure: “Sèet un pu(r)chìin mei?”(stai un po(r)chino meglio adesso?).
• Al tèimp di póorch l éera un suspìir: al tempo dei maiali era un sospiro; lazzo di comico rimprovero indirizzato a chi si lascia sfuggire un rutto in pubblico.
• A lavèers i pée a se stà bèin un dè, a tóor muiéera ’na stmaana, a masèer al póorch un aan: lavarsi i piedi si sta bene un giorno; a prendere moglie una settimana, ad ammazzare il porco un anno. Indubbiamente ci sono molte varietà di piacevolezze nella vita.
• Anche questo è un aneddoto vero. All’inizio del ‘900, un contadino venne dalla campagna in piazza a Carpi per il mercato, eccezionalmente si portò dietro la moglie, che doveva acquistare alcune pezze di tela e altre cose per usi domestici. Il nostro, prima di separasi dalla moglie e andèer a fèer di interèesi cun di mediatóor, le disse: “A se vdòmm po’ a meṡdè … a l’Usterìa di Trii Pòorch”. La bettola era un modesto locale in via Berengario, prima dell’inizio del Portico di S. Nicolò. Essa era gestita da tre omoni molto in carne, belli rotondi e dai modi piuttosto grossolani. Insomma il tono complessivo del locale non era certo di alta raffinatezza. Tant’è che i carpigiani, cun al sóo buchiini saanti, affibbiarono loro il maleducato nomignolo, che ben si confaceva però alla situazione. Ebbene … la donna, che non era pratica del posto, individuò incerta il locale, e prima di scendere i due gradini all’entrata, infilò titubante la testa. Erano le undici e mezza e vide i tre gestori, con i loro grembiuloni bianchi, non certo immacolati, che erano lì a tavola a mangiare … prima di servire la gente. Timorosa e ingenua allora chiese: “Éela quèesta l’Usterìa di Trii Pòorch?” Uno dei tre, con una smorfia, dopo aver dato una rapida occhiata agli altri due, si alzò dal tavolo e rispose: “Mò sè, sgnóora! La vèggna mò dèinter, ch a sòmm chè ch a spetòmm la niméela!!”

 

PREZIOSE TESTIMONIANZE
Un ricordo di Vanni Carpigiani sui giorni della pcarìa

Mi tornano alla memoria i ricordi di quando nella mia famiglia a Ravarino a s masèeva al pòorch a Ravarino.
Avevo circa 10 anni, alla fine degli anni ‘60, e con i miei coetanei e vicini di casa si giurava che avremmo assistito all’uccisione del maiale, … ma in realtà io sono sempre arrivato quando la povera bestia era già morta, anche se da poco.
Al pchèer, il macellaio, detto Bobo, era un uomo grande e biecamente corpulento con gli occhi segnati (come il grossone cattivo nei film di Chaplin); era lui il vero terrore di noi bambini …
Bobo si divertiva a spaventarci e di tanto in tanto si lasciava sfuggire un sorriso, ma vi posso assicurare che vederlo vicino al pugnale insanguinato … faceva paura, perché era capace di uccidere …
Il pugnale era un coltello diverso da tutti gli altri e serviva solo per l’uccisione: si trattava di una specie baionetta. Questo cruento e affilato oggetto scatenava la nostra fantasia di bambini. Pensavamo: “Chissà quanto avrà ucciso quel pugnale e forse non solo maiali ?”
I grandi, (mio padre e mio zio), dicevano che nei macelli usavano la scossa elettrica per uccidere, ma non c’era nulla di meglio del pugnale, perché l’animale si dissanguava quasi completamente in pochi istanti, tutelando la qualità delle carni, con una brevissima sofferenza.
Immediatamente dopo l’uccisione il maiale veniva rasato e pulito perfettamente e tenuto con teli di juta e bagnato continuamente con acqua bollente.
Ricordo due giorni distinti, il primo era quello dell’uccisione, della rasatura, del togliere le interiora e tutti gli organi, che venivano “smontati” con arte senza danneggiarli … uno alla volta. L’enorme carcassa era sollevata con carrucola a tre pali e con un apposto colpo di coltello, assestato in un punto preciso dello sterno, veniva spaccato letteralmente in due, grazie alla cartilagine che univa le ossa.
La pcarìa si faceva sempre il secondo giorno. Procedendo con gli insaccati e con le budella ben lavate.
A volte si faceva anche la “salsiccia matta” una salsiccia di qualità meno pregiata, che conteneva parti di carne meno pregiata.
Già da allora ci raccontavano una vecchia barzelletta sui carabinieri nella quale uno di essi, fermando un contadino con un carro coperto, chiedeva:
“Cosa c’è sul carro?” Il contadino: ”Mezzo maiale!” E il carabiniere: ”Vivo o morto?” Si sa! I carabinieri spesso non sono delle nostre parti.
Non era raro vedere trasportare mezzo maiale, perché poteva capitare che due famiglie lo allevassero in società e poi facessero pcarìa separatamente.
Erano poi anche frequenti i furti di salumi e prosciutti appena macellati … e non si dava certo la colpa agli stranieri. Al tale capitò che gli portassero via il maiale appèina fàat su !

Lo studioso di Sermide, Guido Guidorsi, così racconta
Dicembre! Si, è proprio il tempo di raccontare l’uccisione del maiale in casa, cosa ormai proibita per una presunta non igiene ed un ancora più presunto rispetto degli animali in genere. I giorni che viviamo erano molto propizi per la macellazione.
Il maiale era macellato alle prime gelate di fine autunno o inizio inverno in modo da lavorare la carne a temperature basse e poter mantenere più a lungo inalterate le frattaglie e le parti destinate al primo consumo. Il maiale di una volta aveva un’età minima di 8 o 9 mesi o anche più per cui la carne era molto meno acquosa di quella dei maiali attuali macellati solo dopo sei mesi, l’alimentazione era inoltre molto più varia. Al mattino presto arrivavano i due macellai (operai agricoli che cercavano di integrare i loro scarsi guadagni). Con una grossa e robusta fune legavano una zampa del maiale e lo trascinavano fuori dal porcile, facendolo gridare come un ossesso. Era il segnale che spingeva i ragazzini a precipitarsi nella corte. Mentre uno tratteneva l’animale, l’altro si avvicinava e, afferrata con una mano la zampa anteriore destra, con l’altra, tenuta nascosta dietro la schiena, impugnava un lungo coltello appuntito e tagliente. Spesso si trattava di baionette di moschetto, residuati di guerra, opportunamente affilate. Il maiale, con due dei quattro piedi immobilizzati, poteva facilmente essere rovesciato sul fianco e offrire il punto del corpo dove conficcare il coltello per arrivare dritto al cuore e trafiggerlo. Il grido si faceva altissimo e reiterato per poi man mano affievolirsi. Era sopraggiunta la morte. Il coltello lasciato infilato serviva da convogliatore del sangue che fuoriusciva copioso e che era raccolto in una pentola, lasciato coagulare e mangiato poi fritto tagliato a fette.
Le donne di corte già dalle prime ore della mattina avevano provveduto a far bollire molta acqua in grossi paioli di rame su focolai improvvisati,“li furnaseli”, sistemati in vicinanza del porcile. L’acqua bollente raccolta con secchi era gettata sulla pelle del maiale morto in modo da ustionare l’epidermide e rendere più facile l’asportazione delle setole. La raschiatura dell’epidermide e dei peli avveniva il più alla svelta possibile tramite lame affilate ricavate da vecchie falci fienaie rotte. Il tutto era raccolto per essere venduto a produttori di pennelli.
L’acqua bollente facilitava anche l’asportazione, mediante l’ausilio di uncini, delle unghie dei piedi. Anche queste erano vendute: macinate avrebbero costituito concime organico (il cornunghia), che ora l’agricoltura biologica ha riscoperto. Il corpo del maiale era appeso ad una trave del portico o ad un cavalletto appositamente costruito, per mezzo di legature sulle zampe posteriori, rafforzate da ganci inserite nei tendini. Era lasciato penzolare e, per facilitare la fuoriuscita del sangue ancora ritenuto dal corpo, si sgozzava. Contemporaneamente si procedeva allo svisceramento e alla divisione in due mezzene, “li sciapi dal porch”. Gli intestini erano svuotati, rivoltati, lavati e sbollentati e passati nell’aceto per la disinfezione.
Dopo il taglio in pezzi, erano consegnati alle donne per la cucitura di un estremo. Diventavano i budelli destinati a contenere (secondo il diametro) la carne dei cotechini, dei salami, e delle salsicce. La vescica urinaria costituiva anch’essa un contenitore di conservazione, mentre fegato, polmoni, reni e cuore sarebbero stati cucinati come frittura. Una parte del fegato era fritta subito in tanta cipolla e somministrata, assieme ad abbondante polenta, come colazione di mezza mattina ai macellai ed ai componenti della famiglia. Il grasso per friggere era ricavato da una pellicola reticolata che avvolgeva il fegato. Le due mezzene, private delle parti interne molli, ben sgrondate e pulite dal sangue, erano divise in tre pezzi: la parte posteriore (i prosciutti), la parte mediana e la parte anteriore (spalla e testa). La parte mediana nella zona dorsale e sotto la pelle (la cotica) aveva il lardo, il condimento per eccellenza delle famiglie di una volta.
Più lo spessore di grasso era alto e più si apprezzava l’animale, ora è l’inverso, sono cambiati gusti ed esigenze alimentari. Il grasso della zona ventrale con infiltrazioni di carne magra era la pancetta che poteva essere semplicemente conservata sotto sale come il lardo o essere cosparsa di sale pepe e spezie varie e arrotolata per farne un salume insaccato o avvolto in “carta pecora” da consumarsi stagionato. All’interno della parte mediana dell’animale vi erano due depositi di strutto racchiusi da una pellicola trasparente, cartacea e consistente che serviva per fabbricare un contenitore d’insaccati, in particolar modo la coppa. Il lardo mantenuto attaccato alla cotica era tagliato in bande larghe, salate nella loro parte interna, fatte combaciare in coppia, avvolte nella “carta pecora” (tipica carta oleata, ormai sparita, ma l’unica sufficientemente resistente e impermeabile prima dell’avvento della plastica) e appese ad una trave del soffitto. La massaia ogni mattina ne tagliava una piccola fetta che usava per fare il soffritto, “al sufrit”, alla minestra del pranzo di mezzogiorno. Parlare, allora, di una famiglia che mangiava la minestra con “il soffritto” ad ogni pasto era come definirla benestante.
È evidente che con i mezzi di conservazione del tempo era inevitabile ritrovarsi, col passare dei mesi, del lardo irrancidito, “gras rans”, ma ciò non era motivo sufficiente per smettere di mangiarlo. Solamente quando era divenuto veramente immangiabile, si sceglieva un’altra utilizzazione: si conservava assieme ad altre sostanze grasse di scarto e non più commestibili per fare il sapone casalingo che poi sarebbe servito per il bucato. Le parti anteriori e posteriori erano disossate e se ne ricavavano quattro tipi di carne: quella da salami (il miglior muscolo con le migliori parti grasse) quella da cotechini (la carne meno pregiata dei muscoli), quella per le salsicce (che si consumavano senza grande stagionatura) e quella per la testina (le parti cartilaginose della testa e le più grasse) che doveva essere cotta, tritata, condita, insaccata e mangiata abbastanza alla svelta.
Nella parte superiore, subito dietro la testa, vi erano due muscoli che servivano per fare la “coppa”. Le carni per gli usi sopraindicati erano tritate con apposite macchine, salate, pepate, speziate, aggiunte di aglio, mescolate ed insaccate nei “budelli” del maiale o in altri, che si acquistavano, ricavati dai bovini. L’aggiunta d’aglio ha sempre contraddistinto i salami delle nostre zone rispetto a tutte le altre limitrofe. Il budello riempito di carne era legato nella parte superiore e tutt’intorno. Alla carne da cotechino normalmente si aggiungeva una parte di cotiche tritate, da cui deriva appunto il nome. I ritagli particolarmente grassi erano accumulati e consegnati alla massaia che li poneva nel paiolo sotto il quale ardeva un fuoco moderato e costante. Nel grasso che si scioglieva cominciavano a nuotare i ciccioli, “li grasoli”, che erano estratti dal liquido con la schiumarola e lasciati ben scolare. Essi erano un ottimo accompagnamento per la polenta. Particolare cura era data a questa operazione perché i ciccioli non fossero troppo fritti e lo strutto, la parte liquida, non ingiallisse, ma solidificandosi rimanesse bianco. Esso sarebbe servito per le fritture, al posto dell’olio, dei “pinsin”, delle “lattughe” di carnevale, del pesce pescato nei fossi e nei canali. Il prosciutto di coscia era fatto solo dalle famiglie che uccidevano più maiali e quindi dalle più ricche, poiché se si volevano fare buoni salami vi si doveva necessariamente includere anche la carne della coscia.

Alla fine della lavorazione rimanevano le ossa con residui di carne, le zampe (i sampét), le orecchie, il codino e il grugno. Queste parti si mangiavano per prime, di solito lessate e risolvevano almeno per una settimana il problema del pasto. Come già accennato, la scelta dei mesi più freddi per la macellazione favoriva, in mancanza di frigorifero, la conservazione delle carni, e nello stesso tempo forniva alimenti particolarmente calorici in un periodo dell’ anno in cui il fisico era pronto ad assorbirli.
Da un osso particolare della zampa del maiale si faceva un giocattolo per i bambini, “al frul” il cui nome in dialetto deriva dal rumore che esso faceva se fatto roteare nell’aria mediate l’ausilio di una corda infilata in un foro praticato nella sua parte mediana. Qualcuno se lo ricorda?
La conservazione degli insaccati era praticata in casa, prima in una camera riscaldata per l’asciugatura (con la massima attenzione affinché il budello non si seccasse troppo e si staccasse dal trito di carne interno) e poi in una camera fredda e non molto umida per la prima fuoriuscita della muffa (normalmente era la camera da letto,“la camara di salam”. Per definire qualcuno un po’ tonto si affermava che era “nato nella camera dei salami”.
Solo i salami duravano per tutto l’anno, mentre, nell’ordine, si consumavano salsicce, testina, cotechini, pancetta e coppa . La conservazione dei salami nelle giornate più calde di primavera- estate era fatta nelle cantine aziendali con pavimento in terra battuta ed esposte a nord. Il salame era simbolo di accoglienza per l’amico o il parente che venivano in visita oppure prezioso dono di riconoscenza per favori ricevuti. Per la famiglia si tagliava ogni tanto e si mangiava come companatico, ma con molta parsimonia.
Si racconta che un nonno capo famiglia, a cui era demandato il taglio e la distribuzione delle fette del salame, durante un desinare abbia allungato ad un nipote una fettina di salame e, per ricordargli il dovere di riconoscenza, gli abbia detto: “Vedat … to nonu! (Vedi … tuo nonno come è generoso!”
Al nipote, purtroppo, sembrò che la fetta fosse fin troppo sottile da essere quasi trasparente e pertanto gli rispose:“Si, purtròp, ch a v vedi nonu!(Si! Nonno che vi vedo, purtroppo!)”.
A quei tempi si dava del “voi” ai nonni, alle persone anziane in genere e ai mariti.

 

Il poeta Sandro Roveda ci racconta…
Ecco un vivo ricordo del poeta Sandro Roveda originario di Migliarina.
Mi ricordo da bambino di aver dormito per anni in “dla càambra di salàam”, dove erano appesi a lunghe stanghe i salumi. Solamente che quando era ora di assaggiare quelle prelibatezze, la reṡdóora … mè mèeder, diceva sempre: “Porta pasînsia!” Ed io, un po’ risentito, mi rivolgevo a lei così …

LA CÂMBRA DÎ SALÂM
(grafia dialettale dell’autore)
-Quand’él mâma al mumèint – Quando è, mamma, il momento
ed linsêr ‘na còpa, ûn salâm? di tagliare una coppa, un salame?
A’m vót própria fêr murîr ed fâm? Mi vuoi proprio far morire di fame?
Ch’sa srâla po’ Cosa sarà poi
despichêr da la pêrdga ‘na salsìsa, togliere dalla pertica una salsiccia
vót ch’à matìsa?- vuoi che ammattisca?
-Porta pasînsia Tugnètt, – Porta pazienza ragazzino
te’n vèdd che al furmêint non vedi che il frumento
quêši quêši l’è biònd? è quasi quasi biondo?
Pr’al méder, intóren a la têvla Per il mietere, intorno alla tavola
a gh’gnirà al finimònd ! verrà il finimondo!
E pò, a nè s’à mai E poi non si sa mai
ch’an vègna al caplân che non venga il cappellano
a bendîr la stâla, a benedire la stalla,
i ciûš, i srâj … e i luoghi dove teniamo gli animali
già l’îva dètt l’étr’ân, già l’anno scorso aveva detto
ch’andêva mât per chî nóster salâm! che andava matto per i ns salami!
E la tò mèstra, E la tua maestra,
e t’lît bêla descurdêda? Te la sei già dimenticata?
Se a’n fùss per cal persùtt Se non fosse per quel prosciutto
a st’óra chè, adesso
ed gh’avrèvv dî vót a c’sé bròtt! avresti dei voti così brutti!
Dio d’bendìsa Tugnètt, Dio ti benedica ragazzino,
st’ii gulóš, sei proprio goloso,
perché t’fêr caschêr la gòssa, perché ti fai cascare la goccia,
t’ii šmanióš! Sei smanioso!
Dai, mènga tòtt i gh’ân la tò furtûna, Dai, non tutti hanno la tua fortuna
ed durmîr tòtt l’ân di dormire tutto l’anno
in dla câmbra dî salâm!- nella camera dei salami –
Sauro Roveda

Patrizia Nicolini ricorda negli anni ’60, quando abitava a Gruppo di Fossoli (una frazione di una frazione di Carpi!!!) ricorda il giorno in cui si ammazza il maiale. Si cenava verso sera, quando era finito tutto. Si mangiava la pasta asciutta con la salsiccia fresca e logicamente ciccioli e frittelle di cervella; queste ultime però le facevano schifo.
A tale proposito non posso che concordare e ricordo anche io, a casa mia, la fatica che faceva mia zia a farmi mangiare queste frittelline con l’interno viscido e lattiginoso, il gusto era dolciastro e non era male in sè, ma mi faceva impressione sia che fosse proprio cervello e poi la sensazione di viscido. “Ahh al mè s-ciplèin! Magna ch ii t fàan bèin! Ii t fàan dvintèer inteligìint!” … Brrr … am vìin i ṡgriṡóor sóol a pinserèergh. (Dai … il mio piccolo schizzignoso – s-cippel – ! Mangiale che sono salutari e ti fanno diventare intelligente! Mi vengono i brividi solamente a pensarci.)

Pietro Arcolin di origine veneta e trasferitosi molto giovane a Carpi, ci lascia questa piacevole testimonianza: ”La tradizione dell’uccisione del maiale è abbastanza simile in tutta la pianura padana. Da noi i primi assaggi, oltre le cervella cucinate in tegame con molto pepe, erano con le succose braciole con polenta abbrustolita. Si preparava poi il sangue in umido, che si consumava il giorno dopo con la polenta. Con la trippa si faceva un risotto per la domenica! Mia figlia se lo ricorda ancora !!
Nei salami si notava la “bondola(*)“, insaccata a palla con misto di carne e piccola parte di cotechino, che veniva servita nelle grandi occasioni. Le unghie e il pelo veniva raccolto e venduto da noi ragazzi.
C’era l’abbuffata delle ossa dei zampetti, la coda, le orecchie, il grugno. Nulla del maiale andava perduto. In campagna si godeva forse il giorno più bello!
Eccola qui sotto la foto della simpaticissima bondola o bondiola – una salsiccia di forma sferica (dal latino bòtulus, “budello”) tipica del Veneto.

 

La Sèina dla Pcarìa
di Mauro D’Orazi, revisione del testo di Anna Maria Ori e Graziano Malagoli prima stesura del 22-10-2013 del 22-10-2013

Per motivi igienico sanitari, ma anche per il forte modificarsi dei costumi della nostra società, la pcarìa è stata via via abbandonata.
Adesso le grandi ditte sono delegate a questa operazione tutti i mesi dell’anno in base alle esigenze dei consumatori; un po’ come in lambrusco, che è in lavorazione tutto l’anno, grazie a moderni procedimenti e attrezzature.
La festa che accompagna l’uccisione del maiale ha un retaggio ancestrale e il suo carattere perpetua i riti e gestualità, di cui non si conosce l’origine, ma che si ripetono fin dalla notte dei tempi, spesso inconsapevolmente, alimentando il fascino per l’antropologia e la ricerca delle nostre origini.
Ad esempio la cultura del lardo (in pezzi interi o pestato) e della sugna (nelle vesciche); questi alimenti che oggi ci fanno un po’ senso erano invece componenti energetici di primaria importanza per chi lavorava nei campi e per la creazione di difese naturali per il lungo inverno. Essi ci fanno capire il valore di investimento (capitale) di un animale che, per tale motivo, viveva il più possibile vicino alla casa del contadino, con funzione di spazzino ante litteram, in un’organizzazione economica rurale, dove non si buttava via niente e dove tutto veniva riciclato e riutilizzato.
È rimasta però l’abitudine di celebrare ugualmente questo rito in modo significativo, anche se ridotto, chiamando un sabato o una domenica di dicembre o di gennaio, talora a pranzo, ma più spesso a cena, parenti e amici per la sèina dla Pcarìa o, come si definisce con termine moderno, per “la maialata”.
Oggi in questi riti gastronomici compiaciutamente rievocatori si cerca di riproporre il menù tipico della cena che metteva fine alle complesse operazioni di macellazione del maiale e confezionamento delle sue carni; si cucinano piatti altrimenti introvabili, come il riso con la verza, il sanguinaccio, costine alla brace, i nervetti o altre parti del maiale di solito che è raro reperire in commercio.
Si preparano lunghe tavolate alla buona con tovagliette di quasi dimenticata chèerta ṡaala carta gialla: sì ! proprio quella che, intrisa d’olio, la nonna o la mamma, ti metteva sulla testa dopo una bella zuccata per fèer gniir su ’na brugnòocla (o burgnòocla), per far venir su la botta.

L’amico Mario Brani, ormai da tanti anni, organizza e in parte prepara personalmente nella sua casa di campagna a Limidi alla Pratazzola, una tradizionale sèina dla Pcarìa; del moderno termine “maialata” poi non vuole, e forse giustamente, nemmeno sentir parlare.
Per rendere dovutamente edotti gli ospiti della ormai rara ritualità a cui hanno il privilegio di prendere parte, Mario distribuisce un foglio con “le istruzioni per l’uso”.
Con un’audace azione sono riuscito ad avere copia di questi istruzioni riservate, che qui sotto riporto:

Limidi, 26 Gennaio 2013
“La Pcarìa”
La Pcarìa è consuetudine antica, secolare, presente in molte zone italiane.
Si esegue con cura particolare nella “bassa padana” delle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Cremona, Mantova e Ferrara.
Si tratta della macellazione del maiale e della sua trasformazione in gustosi insaccati per il consumo domestico.
In passato, in tempi parsimoniosi, la Pcarìa forniva tranquillità e garanzia alimentare per l’anno successivo. Eseguita rigorosamente nei mesi più freddi dell’anno, la Pcarìa, coinvolgeva tutta la famiglia patriarcale contadina.
Gli addetti all’operazione erano impegnati dall’alba al tramonto; alla fine della faticosa giornata, il lavoro di concludeva con una saporita cena.
Il Menù non variava MAI!
Nella società autarchica del passato la reṡdóora usava i prodotti disponibili:
• La verza, perché è l’unica verdura che nell’orto regge al gelo invernale.
• Cipolla, carote e fagioli conservati.
• Il riso, di ottima qualità, proveniente dalle risaie dislocate tra l’area carpigiana e i limitrofi comuni del mantovano.
• Il formaggio parmigiano (in tempi passati genericamente il grana).
• E naturalmente le parti di maiale che avanzavano o che venivano trattenute dalla lavorazione degli insaccati.
Con questi ingredienti la reṡdóora, aiutata dalle nuore, preparava i vari piatti che, come è annuale consuetudine di questa casa, anche questa sera vengono rigorosamente ripetuti.
Buon appetito!

Alcune fasi dla pcarìa
La pcarìa, ovvero macellazione del maiale, per tradizione si svolge prevalentemente da metà novembre a inizio gennaio. Consiste nel dividere e preparare le carni del maiale, ognuna secondo la propria specifica vocazione. È un’arte raffinata e basata su una solida esperienza: NON si può improvvisare!
Di seguito alcuni esempi…
1. Testa del maiale, dalla quale si ottiene la coppa di testa. Dopo debita cottura va condita con sale, pepe e miscele di aromi diversi dalla ricetta segreta e poi insaccata.
2. Suddivisione pancetta e carne magra per la preparazione dell’impasto per i salami.
3. Operazioni di legatura del salame e condimento dell’impasto con sale, pepe, aglio e vino.
4. A destra la macchina per imbudellare, ossia insaccare, la carne nel budello.
5. Salame legato e pronto per essere appeso.
6. Tagliatura della cotenna, che poi verrà macinata e miscelata insieme a carni magre muscolose per la preparazione del cotechino, zampone o cappello da prete.
7. Salami appesi a la pèerdga per la stagionatura

Aggiungo infine il mio…

Destìin purchìin
di Mauro D’Orazi
prima stesura 13-11-2012
del 20-12-2012

Alóora .. i mée ragàas …stèe mò a sintìir …
L è mèi èsser …
* impichèe cóome un salàam?
* faat su cóome ’na còppa?
* strichèe su cóome un cudghìin ?
* insachèe cóome un salùmm ?
* còot cóome un persùtt ?
* schisèe cóome un grasóol (cicciolo)?
* ṡgranfgnèe da un feliino (pregiata qualità di salame)?
* ungèe da un ṡampòun?
* graas cóome la pansètta ?
* infumanèe cóome al spècch?
* sfaṡulèe cóome ’na salsissa?
* sfetlèe cóome ’na spaala?
* strulghèe cóome un strulghìin (salamino di prosciutto)?
o èsser …
* bèel ciùunt cóome ’na murtadèela ?

Dgii mò la vòostra …

Mè? … Mè a gh ò bèlle pinsèe …
Fa purr quèll te vóo,
mò a la fiin t ii sèmmper ciavèe! (ma alla fine resti sempre fregato!)

MaVro D’OràaSi

Hanno contribuito Marco Giovanardi, Luisa Pivetti, Jolanda Battini e Graziano Malagoli, Anna Maria Ori,, Sauro Roveda, Oscar Clò, Giliola Pivetti e Vanni Carpigiani.


Mauro D’Orazi
Esperto in Dialetto Carpigiano