21 Ott Al Cucumbròun
L’anguria o cocomero (citrullus lanatus) è una pianta della famiglia delle Cucurbitaceae, originariamente proveniente dall’Africa tropicale, anche nelle nostre zone ha avuto momenti di diffusa coltivazione. È forse il frutto che meglio identifica l’estate, mangiata ben fresca all’ombra con gli amici in ameno conversare.
Era, direi, il 1970 o il ‘71, ero appena tornato da Forte dei Marmi e passavo le giornate il giro con la mia fedele Gilera 124 c c V5, splendida nella sua livrea bianca fuori serie (normalmente era grigio) e nella potenza del suo motore, dotato di grande spunto. La cilindrata era stata portata dal suo primo proprietario, Paolo Righi, a 142 c c ee erano state montate le valvole maggiorate della versione 175 c c.
L’estate era calda come di solito dalle nostre parti e di sera avevamo preso l’abitudine di trovarci a casa, o meglio nell’ampio giardino, di Aldo Creola in via Giovanni XXIII°, quasi in angolo con la Remesina.
Eravamo sempre in tanti, almeno 10 – 15 ragazzi; ricordo Millo, Norberto Magnani, Mauro Bulgarelli, Paolo Bulgarelli, Toto Bonato, Gigia, il Capo, ecc … C’erano poi due di cui non ho notizie da decenni e dei quali mi ricordo a malapena il soprannome.
Il primo era detto Bundaansa, l’origine di tale nome si è perso nella nebbia del tempo … forse perché quando raccontava le sue storie ne aumentava la portata e anche perché cercava di allargarsi nei rapporti sociali, senza avere adeguato censo e personalità.
L’altro veniva dal centr’Italia e, pur essendo un buonissimo ragazzo, aveva una faccia che Lombroso avrebbe studiato con interesse per poi destinare di certo il suo possessore in un qualche girone di malfattori. Costui non per niente era chiamato Cimino, surrogando tale nome a quello di un bandito omicida che a quei tempi era molto famoso e temuto.
Nel 1967 il fuorilegge fu protagonista perfino di una canzone; infame assassino di due fratelli gioiellieri, fu ferito in uno scontro a fuoco con la polizia a Roma. Completamente circondato nel rifugio della sua banda, Cimino cercò i farsi strada alla maniera di Butch Cassidy, uscendo e sparando all’impazzata. Fu ferito al collo, restò paralizzato e morì dopo nove mesi.
Il nostro Cimino, riccioluto e dal viso dai tratti grossolani, era però un ragazzo semplice e tutt’altro che violento; il suo grande sogno era quello di potersi comprare, anche usatissima, una Kawasaki 500 c c 2t. Temo però che non sia mai riuscito nel suo intento.
Tornando a noi, anche quella sera eravamo nel giardino di Aldo, inoperosi e annoiati. Èd gnòoca a n s in ciacarèeva gnaanch! ’Sa fòmm ia ? ’Sa n fòmm ia ? (Di ragazze non se ne parlava nemmeno. Cosa facciamo? Cosa non facciamo?)
E così verso le dieci e mezza a qualcuno, Cimino, venne la geniale idea: “Mò perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri?” L’espressione andèer a cucòmmbri, a piir, a ùa, a marusticàan, ecc … (andare a cocomere, a pere, a uva e prugnette selvatiche, ecc …) non significava altro che inoltrasi notte tempo nei campi coltivati per fregare con destrezza la frutta al contadino del luogo e fuggire il più velocemente possibile, senza farsi prendere o farsi sparare con cartucce a sale.
Questa pratica era molto diffusa fino agli anni ’50, quando tante famiglie cittadine facevano davvero fatica a tirare avanti e a trovare il cibo quotidiano. E quando la reṡdóora vedeva arrivare i figli con le tasche piene di frutta non faceva certo troppo domande e metteva senz’altro in tavola.
È provabile che pronunciasse fra sé la famosa frase: “Aanch pèr incóo a s è magnèe! E dmaan a gh pinsaròmm! (Anche oggi si è mangiato! Domani ci penseremo!”
Ma negli anni ’60 e ’70 questa indigenza era via via completamente scomparsa. Anzi il boom e il benessere avevano portato sulle nostre tavole anche più del necessario (frutta esotica, ecc …).
Andare a rubare della frutta in campagna non aveva quindi alcun senso, se non quello eccitante dell’avventura, che per quanto miserevole, dava sempre comunque emozione e brivido.
Aggiungete poi anche il fatto che la cocomera era stata tutto il giorno sotto il sole rovente di agosto e che certo il suo tepore non potuto ristorare granché gli sprovveduti manigoldi.
Sarebbe stato molto meglio andare tutti assieme presso la rinomata baracchina di Benci al Parco e prendere una bella fetta di anguria gelata e di prima qualità.
Ma tant’è!
“Mò perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri?” esortò di nuovo lo sciagurato ideatore di quella che si sarebbe rivelata un’epica e memorabile sfortunata impresa.
La proposta fu accolta con entusiasmo; io avevo, naturalmente, qualche riserva, pensavo più che altro a mio padre e ai suoi severi moniti di comportamento, ma lo spirito di gruppo prevalse. In pochi minuti un bel gruppetto di moto e scooter imboccava la vicinissima Via Remesina puntando decisamente a nord, verso Fossoli, dove, a sentire i bene informati, c’era una melonaia adatta allo scopo.
Io avevo dietro Cimino che era venuto in bici, Millo portava Bundaansa, Norberto era sul suo vespone e caricava Toto, Aldo era col suo LUI azzurro, potentissimo e scattante, truccato a 75 c c, ecc …
Passammo i binari della ferrovia, dove ogni tanto di notte Paolo Bulgarelli e altri bontemponi si divertivano a fare in fantasmi con un lenzuolo in testa, spaventando la gente che passava in bici o in auto.
Poi via Ivano Martinelli, l’ex Campo di Concentramento, ancora avanti … ; io dentro di me godevo con piacere l’inebriante ebbrezza di quest’avventura per me inedita, ma nel contempo ero terrorizzato dal fatto che qualcosa potesse andare storto e che mio padre, inflessibile poliziotto, lo venisse a sapere con tutte le tragiche (MOLTO tragiche) conseguenze del caso.
Finalmente ci fermammo. La nostra informatissima guida aveva riconosciuto il posto giusto, individuato durante il giorno. Al limitatissimo chiarore notturno, sulla nostra destra, si distingueva un vasto campo con degli oggetti sparsi un po’ più scuri. ERANO le COCOMERE!
“Dai ! Andèe uèeter!! (Su andate voi!)” ordinò uno dei piloti ai passeggeri.
Questi smontarono in fretta dalle selle e, saltato il fosso, si spinsero veloci nel campo. Io intanto, col cuore che mi batteva forte per la paura che ci scoprisse il contadino, avevo subito girato la moto verso Carpi e stavo col motore al minimo a scrutare con apprensione l’oscurità.
“ Ma dove caxxo sono? Mò ’sa faan i? Dàai !(cosa fanno?)”
Al minimo segno di pericolo eroicamente avrei abbandonato il gruppo a tutto gas. Insomma … curàag’ ch a scapòmm! (coraggio che scappiamo!)
Dopo alcuni interminabili minuti, vidi arrivare due che portavano qualcosa a quattro mani. “Mò ’sa fèe v? Dio a v maledissa! (cosa state facendo!)”
“Ne abbiamo cercata una grossa! puff … puff …” fu la risposta ansimante, ma soddisfatta. In effetti ciò che stavano trasportando era un enorme cucumbròun dal considerevole peso e con un diametro almeno di 50 / 60 centimetri. Insomma un globo verde spropositato. Una grande preda!!
Un’enorme cocomera ancora nel campo
Cimino provò a montare sulla mia moto, ma la sfera era troppo troppo voluminosa: io, lui e LEI non si stavamo.
Dopo vari disperati e comici tentativi, gli ordinai perentorio:”Cimino! Dai mò! Mòunta su a l’arvèersa!”
Questi non se lo fece dice due volte, salì sulla sella, schiena contro schiena, con la cocomera strettamente abbracciata fra il petto e le ginocchia.
In questa efficace rievocazione dell’artista Marco Giovanardi
vediamo la fuga in moto di Dorry e Cimino con l’enorme cocomera.
VIAaaaa! VIAaaaa! A gaaṡ avèert! A gas aperto … sì! Ma fin a un sèert puunt, perché rischiavo di perdere il passeggero e il carico al primo serio scossone. Non so ancora come facemmo ad arrivare, ma immagino la faccia di qualcuno che aveva potuto vederci durante l’interpretazione di quel buffo numero di equilibrismo circense.
Finalmente arrivammo a casa di Aldo e il suo provvidenziale cancello ci inghiottì velocemente, nascondendoci alla vista di eventuali curiosi.
Sistemate le moto, il grande trofeo vegetale fu solennemente messo al centro di un basso tavolinetto che si trovava in giardino.
“Chè a gh vóol un curtèel!” disse qualcuno. Il padrone di casa ne portò subito uno, che si rivelò non troppo adeguato.
A Norberto, grande cintura nera di arti marziali estremo orientali, fu affidato l’impegnativo compito del taglio. Due volonterosi collaboratori tenevano ferma la sfera.
Un attento e teso silenzio calò sull’intera compagnia. Tutti i presenti osservavano con trepidante smania la decapitazione e attendevano l’inizio della spartizione del “prezioso” bottino.
Norberto tentò di affondare la lama … una volta … due volte. Niente! La coccia del grosso frutto opponeva resistenza alla violazione, complice una affilatura compromessa dal tempo e dall’uso.
Un terzo colpo deciso ebbe ragione dell’ostinata scorza.
Ma ecco accadere un fatto davvero singolare …
Non appena la lama raggiunse la polpa rossa, un imponente getto d’acqua … FFFFFffffffffffffffffffff … schizzò fuori spinto dalla pressione interna.
L’accoltellatore con un balzo si spostò velocemente indietro per non esserne investito, i ragazzi più vicini … anche.
Il getto continuò, fra la sorpresa di noi tutti, per vari secondi e alcuni litri di acqua sudicia bagnarono il tavolino e la palladiana.
Ci guardammo in faccia stupiti l’un l’altro … “Ma che … ??”
A un certo punto qualcuno osservò meglio l’interno del frutto, annusò l’odore davvero disgustoso …
La realtà fu presto appurata con grande delusione e sconcerto …
avevamo preso … la cocomera da semenza …
al cucumbròun da smèinsa.
Proprio quello che il contadino sceglie con cura, non despicca e lascia crescere e maturare per raccogliere poi i semi neri da seccare e da piantare l’anno successivo.
Con grande delusione prendemmo su i miserevoli pezzi della nostra preda e, guardinghi, li buttammo in un secchio del pattume per far sparire il più velocemente possibile ogni traccia visibile del deludente misfatto.
Davvero una bella impresa !!!
A n gh è mèel!! Và mò là …
-A cura di Mauro D’Orazi, Revisione del testo di Graziano Malagoli-
Mauro D’Orazi
Esperto in Dialetto Carpigiano